Allego, a questo link, la sentenza Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 marzo - 10 luglio 2013, n.
17122 che riforma una sentenza della Corte di Appello di Napoli, a sua volta relativa ad una sentenza del Tribunale di Torre Annunziata (dott.ssa Palumbo).
Il ricorso è stato curato dai colleghi Fedelmassimo Ricciardelli, Gemma Trombetta e Stefania Palescandolo.
La sentenza chiarisce alcuni punti molto ricorrenti nella ordinaria casistica.
1) I casi di nullità del ricorso introduttivo.
(riporto lo stralcio di interesse)
In base a consolidati e
condivisi orientamenti di questa Corte nel rito del lavoro per aversi nullità
del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione
dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e
delle ragioni di diritto che ne costituiscono il fondamento non è sufficiente
che taluno di tali elementi non venga formalmente indicato, ma è necessario che
attraverso l'esame complessivo dell'atto - che compete al giudice del merito ed
è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione - sia
impossibile l'individuazione esatta della pretesa dell'attore e il convenuto
non possa apprestare una compiuta difesa (Cass. 9 maggio 2012, n. 7097; Cass. 8
febbraio 2011, n. 3126; Cass. 23 marzo 2004, n. 5794; Cass. 25 luglio 2001, n.
10154; Cass. 1 marzo 2000, n. 2257; Cass. 1 luglio 1999, n. 6714; Cass. 29
gennaio 1999, n. 817; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2205; Cass. 27 aprile 1998, n.
4296).
In applicazione a tali indirizzi la suddetta nullità è stata esclusa, con
riferimento ad ipotesi di domande aventi ad oggetto spettanze retributive:
a) allorché l'attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l'orario
di lavoro, l'inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma
complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le
spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici
o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore
(vedi, per tutte: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126 cit.; Cass. 7 gennaio 2003, n.
41; Cass. 20 gennaio 1999, n. 817);
b) qualora l'attore abbia indicato i titoli delle spettanze retributive
richieste, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente
ed esaurientemente le proprie difese, restando a tal fine irrilevante la
mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese,
anche in considerazione della facoltà dell'attore medesimo di modificarne
l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in
ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la
liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 24 ottobre 2008, n. 25753; Cass.
20 marzo 2004, n. 5649; Cass. 5 ottobre 2002, n. 14292);
c) se il giudice del merito abbia ritenuto che il ricorso introduttivo non
consentisse di individuare gli estremi della domanda - sul rilievo che in esso
non veniva indicato quale fosse in concreto il tipo di rapporto di dipendenza
dedotto e non venivano precisate le relative modalità operative - avendo questa
Corte, viceversa, precisato che il ricorso introduttivo, contenendo
l'indicazione in cifra di vari crediti retributivi riferiti tutti a titoli
tipici ed esclusivi di un rapporto di lavoro subordinato, era da considerare
conforme all'art. 414 cod. proc. civ., in quanto le suddette indicazioni
dovevano considerarsi sufficienti a configurare il petitum e
ilthema decidendum, mentre le carenze rilevate dal giudice del merito
riguardavano elementi che il ricorrente aveva l'onere di dedurre e provare per
sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154
cit.), cioè elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa
specificazione si pone in contrasto a quanto prescritto dall'art. 414 n. 5 cod.
proc. civ. ma non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la
decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del
processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);
d) nell'ipotesi in cui il giudice del merito, in sede di appello, possa trarre
elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza
degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al
giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta
necessaria per la decisione della controversia (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316;
Cass. 9 maggio 2012, n. 7097 cit.), ciò in quanto l'individuazione del petitum,
sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l'esame complessivo
dell'atto introduttivo del giudizio, deve compiersi anche d'ufficio e anche in
grado di appello (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n.
14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296);
e) allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso
introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, visto che, in
tale ipotesi, l'accertamento del giudice del merito deve estendersi, con eguale
profondità, al contenuto degli allegati richiamati, i quali, specialmente se di
natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare
compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale, sicché il
giudice del merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando
le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei,
non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa
determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si
sottragga al sindacato di legittimità (Cass. 19 maggio 2009, n. 11599; Cass. 28
luglio 2005, n. 15802; Cass. 21 settembre 2004, n. 18930).
5.2.- Dall'insieme dei su riportati orientamenti si desume che il criterio
generale cui sono ispirati è quello secondo cui l'atto introduttivo del giudizio
deve essere interpretato - sulla base del generale principio di conservazione
dell'atto al raggiungimento del proprio scopo, che governa tutte le nullità
anche processuali - alla luce dei principi regolatori del giusto processo di
cui all'art. 111 Cost. e, in particolare, della garanzia del diritto di difesa,
sancita anche dall'art. 24 Cost..
Ciò vale, a maggior
ragione nel rito del lavoro i cui principi informatori (come si desume fin
dalla legge istitutiva 11 agosto 1973 n 533) sono finalizzati soprattutto
all'esigenza di tenere conto delle peculiari caratteristiche dei rapporti
sottostanti - nei quali il lavoratore si configura come il contraente più
debole, tanto più in caso di licenziamento - tanto che il rigoroso sistema di
preclusioni in esso previsto in materia di produzioni probatorie trova un
contemperamento - ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo
con la ricerca della verità materiale - nei poteri d'ufficio del giudice in
materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 421 cod.
proc. civ. e dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di
appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).
2) La mancata comunicazione dei motivi del licenziamento in area di tutela obbligatoria: la disciplina risarcitoria applicabile.
La questione è quella delle conseguenze del licenziamento inefficace -per
mancata comunicazione dei motivi, richiesta dal lavoratore - nei rapporti
assoggettati alla stabilità obbligatoria.
Tale questione è stata oggetto di un contrasto nella giurisprudenza di
legittimità, delineatosi per effetto di Cass. 23 dicembre 1996, n. 11497, che
discostandosi dalla giurisprudenza prevalente, aveva ritenuto applicabile all'ipotesi
di mancata tempestiva comunicazione dei motivi di recesso anziché la disciplina
della nullità del licenziamento quella sui licenziamenti individuali, con
conseguente obbligo di riassunzione o, in alternativa, corresponsione
dell'indennità a ristoro del danno subito, come previsto (e nella misura
stabilita) dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 - in sede di composizione di tale contrasto -
ha affermato il principio secondo cui "nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui
all'art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 legge n. 108 del
1990, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 legge
n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 legge n. 108 del 1990, non produce
effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, senza che possa distinguersi
tra i diversi vizi formali inficianti l'atto e, in particolare, senza che possa
ritenersi applicabile al vizio della mancata comunicazione dei motivi del
recesso richiesti dal lavoratore la disciplina sanzionatoria dettata dall'art.
8 legge n. 604/66 cit. per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta
causa o giustificato motivo; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a
prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla
continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla
corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento
inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole
in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi
riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica".
Tale principio è rimasto fermo nella giurisprudenza di questa Corte attraverso
molteplici applicazioni, tutte basate sulla premessa secondo cui nei rapporti
sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi
formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato
dall'art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità
del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in
particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi
di recesso, richiesta dal lavoratore.
È stato così affermato che nella suindicata situazione:
a) non si possono fare
distinzioni tra i diversi vizi formali, ritenendo applicabile a quello
derivante dalla mancata comunicazione dei motivi del recesso la disciplina
sanzionatoria prevista dall'art. 8, legge n. 604 del 1996; tuttavia, vertendosi
in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del
licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta
il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal
giorno del licenziamento inefficace, ma solo il diritto al risarcimento del
danno, che va determinato secondo le regole in materia di inadempimento delle
obbligazioni ed eventualmente quantificato in misura pari alle retribuzioni
maturate dalla data del recesso alla data della pronuncia che ha dichiarato
l'illegittimità del licenziamento (Cass. 18 agosto 2003, n. 12079);
b) non è applicabile la
disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604 del 1966 per la
diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo,
ma, nel caso di difetto di attuazione della prestazione lavorativa imputabile
al datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno,
normalmente quantificabile con riferimento alle retribuzioni perse. Per la
determinazione di tale danno deve essere valutata sia l'incidenza di un
eventuale successivo licenziamento formale idoneo a produrre ex nunc effetti
risolutivi del rapporto, sia la tempestiva deduzione dell’aliunde perceptum.
Pertanto il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento delle
"retribuzioni medio tempore non corrisposte", senza
attribuire rilevanza alla successiva intimazione formale del licenziamento e
senza esaminare la deduzione in appello dell’aliunde perceptum, con
richiesta di prova in riferimento al periodo successivo al giudizio di primo
grado (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946);
c) non è necessaria - per
dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente
al licenziamento - la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante
l'offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia
tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il
rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni
lavorative (Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392);
d) la conseguenza del
fatto che il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2
della legge n. 604 del 1966 e succ. mod. non produce effetti sulla continuità
del rapporto - che deve pertanto considerarsi mai interrotto - consiste, per i
rapporti non rientranti nell'area della tutela reale, nel riconoscimento al
lavoratore del diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le
regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo
eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma sempre considerando che
la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell'adempimento
dell'obbligazione retributiva che siano messe a disposizione le operae e,
cioè, che vi sia l'offerta, della prestazione lavorativa, mediante formale
costituzione in mora o, comunque, con altra modalità (Cass. 30 agosto 2010, n.
18844);
e) il licenziamento
intimato oralmente è radicalmente inefficace, per inosservanza dell'onere della
forma scritta, imposto dall'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604,
novellato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è
inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere
la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di
lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale od obbligatorio),
giacché la sanzione ivi prevista non opera soltanto nei confronti dei
lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato
per la prosecuzione del rapporto), sicché la radicale inefficacia del
licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando
applicazione l'ordinario regime risarcitorio, con obbligo di corrispondere,
trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a
causa dell'inadempimento datoriale (Cass. 10 settembre 2012, n. 15106; Cass. 1
agosto 2007, n. 16955).
6.2.- La Corte partenopea, pur muovendo dall'esatta duplice premessa che il
licenziamento del V. deve considerarsi inefficace - per mancata risposta della
società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi
dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 - e che al rapporto di lavoro in
oggetto va applicata la tutela obbligatoria, tuttavia nel determinare le
conseguenze risarcitorie di tale licenziamento si è discostata dai principi
affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e su riportati.
Dalla sentenza risulta, infatti, che la Corte territoriale ha a tal fine,
erroneamente, dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al
requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell'inadempimento
contrattuale, facendo, in particolare, riferimento al generale regime della
nullità del contratto a prestazioni corrispettive richiamato da Cass. SU 27
luglio 1999, n. 508 e dalla successiva giurisprudenza ad essa conforme.
Come rilevato dal ricorrente, se la Corte d'appello avesse correttamente
applicato la suindicata disciplina avrebbe dovuto affermare l'obbligo della
società CA.VER di corrispondere al lavoratore - trattandosi di rapporto di
lavoro ancora in atto - le retribuzioni non percepite a causa
dell'inadempimento, non potendo nutrirsi dubbi sulla persistenza del vincolo
contrattuale (desumibile dall'offerta della prestazione lavorativa da parte
dell'interessato) e sull'imputabilità dell'inadempimento alla datrice di
lavoro, il cui comportamento avrebbe dovuto essere valutato anche tenendo conto
dalla intimazione al ricorrente di un nuovo licenziamento, dopo la sentenza di
primo grado del presente giudizio, ancora una volta effettuata in totale
violazione dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966.