Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 ottobre – 17
dicembre 2013, n. 28117
Presidente Stile – Relatore Marotta
Presidente Stile – Relatore Marotta
Come
questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un umico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10 novembre
2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17 dicembre 2004, n. 23554,
nonché più di recente Cass. 18 novembre 2010, n. 23319, 11 marzo 2011, n. 5887,
4 agosto 2011, n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del
contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente
una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di
lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle
quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre
definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre
2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 cod. civ., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione dei rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)".
Orbene nella fattispecie la Corte di appello, dopo aver richiamato tale ultimo indirizzo "oggettivo" (ed in specie Cass. n. 13891/2004 cit.), ha affermato che "il giudice è tenuto ad attribuire valore di dichiarazione negoziale a comportamenti sociali valutati in modo tipico, per ciò che essi socialmente esprimono", in tal modo disattendendo l’indirizzo prevalente ormai consolidato e qui ulteriormente ribadito.
In particolare la Corte territoriale in sostanza ha fondato la propria decisione soltanto sulla, pur prolungata, inerzia del lavoratore, sulla mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, nonché sull’avvenuta restituzione del libretto di lavoro e sull’accettazione senza riserva del t.f.r. (circostanze, a ben guardare, tutte incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore, sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati).
In tal modo la Corte di merito ha disatteso l’indirizzo consolidato qui ribadito, valutando le circostanze richiamate sul piano meramente oggettivo, anziché sotto il profilo della chiara e certa manifestazione tacita della volontà risolutiva di ogni rapporto.
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 cod. civ., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione dei rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)".
Orbene nella fattispecie la Corte di appello, dopo aver richiamato tale ultimo indirizzo "oggettivo" (ed in specie Cass. n. 13891/2004 cit.), ha affermato che "il giudice è tenuto ad attribuire valore di dichiarazione negoziale a comportamenti sociali valutati in modo tipico, per ciò che essi socialmente esprimono", in tal modo disattendendo l’indirizzo prevalente ormai consolidato e qui ulteriormente ribadito.
In particolare la Corte territoriale in sostanza ha fondato la propria decisione soltanto sulla, pur prolungata, inerzia del lavoratore, sulla mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, nonché sull’avvenuta restituzione del libretto di lavoro e sull’accettazione senza riserva del t.f.r. (circostanze, a ben guardare, tutte incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore, sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati).
In tal modo la Corte di merito ha disatteso l’indirizzo consolidato qui ribadito, valutando le circostanze richiamate sul piano meramente oggettivo, anziché sotto il profilo della chiara e certa manifestazione tacita della volontà risolutiva di ogni rapporto.
...
Deve,
dunque, essere ribadito che l’eventuale risoluzione del rapporto per mutuo
consenso va accertata con particolare rigore e, ove non contenuta in un atto
formale, deve risultare da un comportamento inequivoco che evidenzi il completo
disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto stesso,
essendo a tal fine prive di univoco valore sintomatico in tal senso, oltre
all’illegittima apposizione del termine, anche la mancanza, pure se per un
lungo periodo, di attività lavorativa, nonché la restituzione del libretto di
lavoro al lavoratore e le stesse circostanze del versamento e dell’accettazione
senza riserva, da parte del medesimo, di competenze economiche.
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