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domenica 27 febbraio 2011

Convegno dell'Ordine degli Avocati di Torre Annunziata del 26 febbraio 2011

Sabato 26 febbraio si è tenuto a Sorrento, presso l'Hotel Hilton un convegno dal titolo “PREVIDENZA FORENSE E PARI OPPORTUNITA’ PER GIOVANI AVVOCATI”.
Al netto delle solite liturgie costituite da saluti, passarelle, manifestazioni esplicite di disinteresse da parte dell'70% degli avvocati (presenti in gran parte solo per maturare crediti formativi preziosi), sono stati trattati non solo i temi prevideziali oggetto specifico del convegno, ma anche un più generale quadro d'insieme dell'avvocatura di oggi e delle prospettive future. Il parterre era d'eccezione, lo sforzo organizzativo indiscutibile e si sentiva una reale e sincera preoccupazione per l'attuale stato dell'avvocatura soprattutto in un momento cruciale caraterizzato da possibili riforme ordinamentali e da innovazioni, prima tra tutte la media conciliazione, che incideranno sullo stato dell'avvocatura. Ciò che più ha colpito è l'incapacità di una categoria come l'avvocatura, numerosissima nel Paese e soprattutto nel Parlamento e nelle Istituzioni in genere, di incidere in maniera seria e determinata sulla legislazione. Tale incapacità è stata dichiarata a chiare lettere da parlamentari e da esponenti di vertice delle organizzazioni di rappresentanza forense con un candore che rasenta l'incredibile. Si votano partiti, rappresentanti dell'ordine, membri del CNF e quant'altro e mi trovo difronte a soggetti che in un pubblico dibattito, per non dire delle altre sedi, si lamentano del fatto che altri ordini professionali erodono spazio agli avvocati e che il Legislatore (quasi come se si trattasse dell'imperscrutabile Dio supremo) ci propina sempre e solo riforme tese a danneggiare gli avvocati. La domanda sorge spontanea: ma allora questa gente, oltre a denunziare con invidiabile nonchalance le proprie incapacità nei dibattiti pubblici dinanzi ai loro rappresentati, cos'altro fa?
Il rappresentanza dell'AIGA, l'associazione dei giovani avvocati, nell'unico intervento non "difensivo e di protesta" ma propositivo, proponeva appunto di acquisire qualcuna delle competenze dei notai (si limitava al banalissimo potere di autentica delle firme apposte alle scritture private), ma per giungere a tale obiettivo non riferiva di iniziative parlamentari, di scioperi della fame, di un plotone di parlamentari avvocati trasversalmente interessati, ma, udite udite, di fare una petizione tra avvocati osservando, con lungimirante acume, che dato che in Italia siamo circa 200 mila, se ognuno di noi raccoglie 5 firme tra gli stessi familiari, arriviamo a un milione di firme, e allora, concludeva il nostro Rappresentante con tono profetico "allora si che il ministro ci dovrà ascoltare!!".
E questo è lo stato dell'arte.

mercoledì 16 febbraio 2011

TRATTENUTE SINDACALI E OO.SS. NON FIRMATARIE

Occorre premettere una breve disanima della disciplina generale in tema di contribuzione sindacale con particolare riguardo alla trattenuta dei contributi ad opera del datore di lavoro.
A seguito di referendum (recepito con DPR 313/95) il datore di lavoro non è più obbligato per legge a trattenere, su delega del lavoratore, i contributi sindacali direttamente dalla busta paga ed a versarli all'associazione designata dal lavoratore.
La disciplina attuale della riscossione dei contributi sindacali dipende, quindi, dalla previsione del contratto collettivo di riferimento.
- se il CCNL contiene un semplice rinvio alla disciplina legale sulla trattenuta dei contributi sindacali, la norma contrattuale è priva di efficacia operativa;
- se, come avviene nella maggior parte dei casi, il CCNL disciplina i sistemi di versamento dei contributi, il datore di lavoro deve seguire le regole dettate dallo stesso, dal momento che un comportamento difforme costituisce condotta antisindacale.
Normalmente i CCNL nulla dicono in ordine alla contribuzione delle OOSS non stipulanti, vale a dire non firmatarie del CCNL medesimo.
Non sfuggirà l’importanza della distinzione, quindi, tra OOSS firmatarie e non firmatarie.
Non rinvenendo quindi le OOSS non firmatarie il fondamento dell’obbligo datoriale di trattenuta e versamento a fronte di delega espressa dalla norma contrattuale, occorrerà verificare se ricorre altra fonte di obbligo per il datore di lavoro.
Sintetizzando al massimo la problematica, posso concludere nel senso che non vi è alcuna disposizione specifica che obblighi il datore di lavoro ad effettuare le trattenute destinate a OOSS non firmatarie.
La giurisprudenza, pertanto, superando un precedente contrasto, ritiene che il lavoratore possa richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato attraverso l'istituto della cessione del credito (che non richiede in via generale il consenso del datore di lavoro: art. 1260 c.c.), salvo che il datore di lavoro non provi che la cessione comporta in concreto a suo carico un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale (Cass. 14 marzo 2007 n. 5917).
Le OOSS non firmatarie, pertanto, sono costrette a fare richiamo e applicazione del generale istituto della cessione del credito.
Ricondotta in tale alveo la problematica, il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di effettuare la trattenuta e di versare la quota al sindacato designato è considerato, da questa giurisprudenza, oltre che un illecito civilistico (presupposto per l’azione di ripetizione), una condotta antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato cui aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dai propri aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della sua attività (Cass. SU 21 dicembre 2005 n. 28269).
Quindi, in tal modo la distinzione formale e di fondo tra OOSS firmatarie e non viene di fatto ad essere teoricamente aggirata. Dico teoricamente in quanto, a differenze delle OOSS firmatarie, quelle non firmatarie dovranno fare i conti con la disciplina della cessione dei crediti, in generale, e con quella specifica della cessione dei crediti di lavoro.
La Giurisprudenza ha infatti anche evidenziato in taluni casi che: “Il rifiuto del datore di lavoro di operare la trattenuta mensile nei confronti del dipendente, il quale abbia fatto richiesta di versamento della quota associativa ad un'organizzazione sindacale non firmataria del contratto collettivo, è da considerarsi antisindacale soltanto fino al 31 dicembre 2004, poiché il regime normativo di cui al novellato art. 1, d.P.R. n. 180/1950, in vigore dall'1 gennaio 2005, esclude la possibilità di cedere i crediti retributivi e pensionistici al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge” (Tribunale Torino del 04 dicembre 2006).
Per il resto ritorniamo quindi alla problematica delle cessioni stipendiali che ci occupano normalmente in tema di finanziarie.
I punti di maggiore interesse sono quindi i medesimi, punti che riassumo appresso richiamando specifiche pronunce:
“Non sussiste alcuna legittimazione ad agire per il cessionario senza la prova della cessione del credito. La natura consensuale di tale contratto, infatti, comporta che il credito si trasferisca dal patrimonio del cedente a quello del cessionario per effetto dell'accordo, mentre l'efficacia e la legittimazione del cessionario a pretendere la prestazione dal debitore conseguono alla notifica o all'accettazione del contraente ceduto” (Cassazione civile sez. III 16 novembre 2010, n. 23093).
“La sussistenza dei requisiti di efficacia della cessione dei credito nei riguardi del debitore ceduto rientra tra i fatti costitutivi della domanda proposta dal cessionario contro lo stesso debitore, onde deve essere accertata dal giudice indipendentemente dall'eccezione del convenuto, che può limitarsi a contestare genericamente la sussistenza di tale efficacia. L'inefficacia della cessione del credito, in altri termini, non costituisce un'eccezione in senso proprio del debitore ceduto ma semplicemente la negazione di un fatto costitutivo” (Tribunale Novara 20 settembre 2010, n. 859).
“La notificazione al debitore ceduto, previsto dall'art. 1264 c.c. quale presupposto per il perfezionamento della cessione del credito non si identifica con quella effettuata ai sensi dell'ordinamento processuale, ma può realizzarsi con un atto a forma libera, purché idoneo a porre il debitore nella consapevolezza della mutata titolarità attiva del rapporto obbligatorio.” (Cassazione civile sez. III, 05 febbraio 2008, n. 2665).
Quindi, il sindacato sarà costretto a dimostrare che v’è stata la cessione (delega) e che tale cessione era a conoscenza del datore di lavoro.

lunedì 14 febbraio 2011

CONTRATTI A TERMINE PARZIALMENTE NULLI. QUALE RISARCIMENTO?

I commentatori, gli operatori del diritto e, direi addirittura, l'opinione pubblica non ha, a parer mio, valutato nella giusta misura l'enorme portata della vera e propria riforma sostanziale della disciplina dei contratti a termine introdotta dall'ormai noto Collegato lavoro 2010.
L'importanza della modifica è strettamente correlata alla grande diffusione che i contratti a termine hanno avuto ed hanno storicamente. Tale forma contrattuale è una di quelle ipotesi sorte nella pratica contrattuale e poi disciplinate dal legislatore. Basti pensare alla differenza con forme contrattuali "artificiose ed artificiali", penso allo job sharing per citarne uno, introdotte con norme mai assimiliate e ancor meno utilizzate dagli operatori e dalle imprese: così che mentre il il Legislatore "rincorre" i contratti a tempo determinato, i nuovi istituti contrattuali, sorti da un tentativo di fornire flessibilità al mercato del lavoro, restano appannaggio dei teorici del diritto.
La tendenza che si nota è quella di limitare quanto più possibile il ricorso ai contratti a termine, introducendo come noto una disciplina rigorosa (D.Lgs 268/2001)soprattutto in tema di rinnovo e proroghe, e quella di limitare la portata delle conseguenze dei contratti a termine nulli (recte: parzialmente nulli in ordine all'illegittima apposizione del termine).
Visto che la Giurisprudenza nulla faceva in merito, anzi, il Legislatore ha ripetutamente tentato di porre mano alla questione risarcimento.
L'ultimo tentativo operato, quello che si rinviene nel Collegato lavoro 2010, resterà a parer mio tale, vale a dire un mero tentativo.
Il punto sul quale andrà a cozzare il buon proposito di "aiutare le imprese" consisterà nella impossibilità di conciliare l'inefficacia del termine apposto (conseguente alla nullità del termine stesso) con forme di risarcimento diverse dalle retribuzioni medio tempore maturate.
Subito dopo la pubblicazione a novembre del Collegato, sono intervenute alcune pronuncie di Giudici di merito che hanno ipotizzato come la nuova forma risarcitoria prevista dal Collegato si aggiunga e non si sostituisca alla precedente disciplina. L'esatto contrario delle intenzioni del Legislatore.
Evidentemente la ratio della norma, e anche la lettera era ben diversa.
E se ne accorta la Suprema Corte, affermando (cosa più importante delle motivazioni formali) che il risarcimento previsto dalla novella sia sostitutivo delle retribuzioni medio tempore maturate.
La Corte di Cassazione, infatti, con l’ordinanza n. 2112 del 28 gennaio 2011 (che riporto al seguente link: ordinanza 2112-2011) ha ritenuto in contrasto con la Costituzione l’art. 32, c. 5 e 6, Legge 183/2010, per l’esiguità del risarcimento prevista in caso di apposizione illegittima del termine.
In effetti, il co. 5 di tale legge prevede che, nel caso in cui il contratto a tempo determinato sia convertito in contratto a tempo indeterminato per via dell’illegittima apposizione del termine, “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un’indennità “onnicomprensiva” nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.”
Del resto, il co. 6 stabilisce una diminuzione della metà di tale indennizzo nel caso in cui gli accordi nazionali, territoriali o aziendali, firmati con le organizzazioni sindacali, prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a tempo determinato.
Secondo la Corte, “il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Fino a questo momento, spesso futuro e incerto durante lo svolgimento del processo e non certo neppure quando viene emessa la sentenza di condanna, il danno aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch’esse non esattamente prevedibili”.
Invero, la soluzione indicata nell’art. 32, commi 5 e 6, non può essere assimilata all’indennità ex art. 8, L. 15 luglio 1966, n. 604, in quanto il caso regolato dall’ art. 8 non riguarda il risarcimento del danno dovuto per la mancata attuazione del rapporto lavorativo, dal momento che il diritto all’indennità esclude il diritto al mantenimento del rapporto.
Peraltro nell’ordinanza si legge che un’indennità non proporzionata rispetto all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento (prolungando il processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna).
Tutto ciò vanifica il diritto del cittadino al lavoro ex art. 4 Cost., e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che aumenta con la durata del processo, in contrasto con il principio di cui agli artt. 24 e 111, co. 2 Cost., che esige corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale.
Infine, si ravvisa, altresì, contrasto con l’art. 117, c.1, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al giusto processo e che vieta al legislatore di intromettersi nell’amministrazione della giustizia per influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse.
Per questi motivi la Corte ha dichiarato non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5 e 6, l. 4 novembre 2010 n. 183, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Vedremo cosa dirà la Corte Costituzionale.
Ritengo che dichiarerà (per la seconda volta) illegittimo l'intervento del legislatore in tema di risarcimento (ricordate il tentativo di modifica per "salvare" le Poste Italiane Spa?)
Si accettano scommesse....