Pagine

sabato 21 dicembre 2013

L'Aspi (indennità di disoccupazione) compete anche in caso di licenziamento per giusta causa

Risp. Interp. Min. Lav. n. 29 del 23 ottobre 2013

Il Ministero del Lavoro, con la Risposta ad Interpello n. 29/2013, ha specificato che il licenziamento disciplinare costituisce una ipotesi di disoccupazione “involontaria” sicché, anche in tale ipotesi, spetta L’ASpI. Come è noto, la riforma Fornero, ha introdotto, con l’art. 2 della L. n. 92/2012, l'Assicurazione Sociale per l'Impiego (ASpI) che ha la finalità di fornire una indennità di disoccupazione ai lavoratori colpiti da disoccupazione involontaria. 
Dal tenore letterale della predetta normativa, ad avviso del Ministero, può evincersi che le cause di esclusione dall’ASpI sono tassative e riguardano:
i) i casi di dimissioni (con l’eccezione: delle dimissioni per giusta causa e delle dimissioni intervenute durante il periodo di maternità tutelato dalla legge) e
ii) i casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Ciò premesso, si legge nella risposta ad interpello, “non sembra potersi escludere” che l’indennità de qua sia corrisposta anche in ipotesi di licenziamento disciplinare, così come del resto ha inteso chiarire l’Istituto previdenziale il quale è intervenuto con numerose circolari (cfr. INPS circolari. n.140/2012, 142/2012, 44/2013) per disciplinare espressamente le ipotesi di esclusione della corresponsione dell’indennità in parola senza trattare l’ipotesi del licenziamento disciplinare.
L’Istituto precisa inoltre, che il licenziamento disciplinare può essere considerato già un’adeguata risposta dell’ordinamento al comportamento del lavoratore e negare la corresponsione della ASpI costituirebbe un’ulteriore reazione sanzionatoria nei suoi confronti. Sotto diverso profilo, osserva ancora il Ministero, in primo luogo il licenziamento disciplinare non può essere qualificato come disoccupazione “volontaria”. Inoltre, considerato che il Giudice potrebbe ritenere illegittimo il provvedimento, in tale caso potrebbe risultare iniquo negare la protezione assicurata dall’ASpI.
Pertanto, al riconoscimento del trattamento ASpI a favore del lavoratore segue l’obbligo per il datore di lavoro di versare il contributo previsto dall’art. 2, comma 31 della L. 92/2012 nell'ipotesi di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.


venerdì 20 dicembre 2013

Somministrazione di manodopera e contratti a termine


CASS. SEZIONE LAVORO
9 SETTEMBRE 2013, N. 20598


In tema di somministrazione di manodopera, la legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una situazione riconducibile alla ragione indicata nel contratto stesso.

Tra i precedenti conformi in tema di somministrazione di manodopera si veda Cassazione 6933/2012 per la quale il controllo giudiziario sulle ragioni che la consentono - che è limitato all’accertamento della loro esistenza, e non può estendersi al sindacato sulle valutazioni tecniche ed organizzative dell’utilizzatore implica la verifica dell’effettività dell’esigenza di assunzione indicata nel contratto di somministrazione stipulato tra la somministratrice e l’utilizzatrice, restando irrilevante la diversa indicazione nel contratto di assunzione. Ne consegue che, ove la somministrazione sia fatta con riferimento ad una determinata sede di lavoro per sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto, l’assegnazione del lavoratore ad altra sede implica la violazione delle condizioni legali della somministrazione e la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore della prestazione, restando irrilevante che nel contratto di assunzione sia stata indicata la sede di effettiva utilizzazione. 

mercoledì 18 dicembre 2013

Licenziamento ad nutum per superamento dell'età pensionabile - Importanti precisazioni

CORTE DI APPELLO TORINO - Sentenza 24 ottobre 2013

L’art. 24 comma 3 DL 201/2011 stabilisce che i lavoratori che abbiano raggiunto entro il 31.12.2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti (ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità) dalla previgente normativa conseguano il diritto alla prestazione secondo tale normativa.
La norma prosegue stabilendo che, a decorrere dall’1.1.2012, le pensioni di vecchiaia, vecchiaia anticipata e anzianità sono sostituite dalla pensione di vecchiaia e dalla pensione anticipata, prestazioni da conseguirsi esclusivamente sulla base dei nuovi requisiti previsti dai commi 6, 7, 10 e 11 DL citato.
Il testo del comma 4 del medesimo articolo è il seguente: "Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria.. .e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’art. 2, comma 26 della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato... dal l’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settantanni...Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità.".
La portata letterale della disposizione (in particolare il riferimento ai "requisiti minimi previsti dai successivi commi") è tale da rendere del tutto evidente che la stessa (nella sua integralità e, dunque, anche nella parte che prevede incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa e stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferisce unicamente ai lavoratori che raggiungono l’età pensionabile dopo il 31.12.2011 secondo i nuovi requisiti (pacifico essendo che anche il lavoratore privato che già abbia raggiunto i requisiti per la pensione anticipata ma non ancora quelli per la pensione di vecchiaia gode della medesima tutela e ciò a differenza del lavoratore pubblico, che può essere licenziato ad nutum già quando abbia raggiunto l’anzianità contributiva massima, secondo quanto previsto dall’art. 72 comma 11 DL 12/2008).
E’ errata l’affermazione del primo giudice secondo la quale "il co. 3, primo periodo e il co. 14 dell’art. 24 d.l. cit. limitano la deroga all’applicabilità della riforma pensionistica alle sole disposizioni sul diritto all’accesso e sulle decorrenze del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità non anche alle disposizioni relative al proseguimento incentivato dell’attività lavorativa di cui al co. 4 (e alla connessa "stabilizzazione" del regime di tutela reale ex art. 18 st.lav.) fino al compimento del settantesimo anno di età", così come è errata l’affermazione secondo la quale "un utile indizio ermeneutico può essere ricavato dal co. 1 lett.b) dell’art. 24 d.l. cit., ove viene introdotto un principio generale di incentivazione alla prosecuzione dell’attività lavorativa valevole per tutti i lavoratori senza distinzioni di sorta a seconda della maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia".
Tali disposizioni, infatti, non consentono per nulla di estendere ai lavoratori che abbiano maturato i requisiti per il diritto a pensione entro il 31.12.2011 secondo la vecchia normativa nuove disposizioni attinenti profili diversi da requisiti e decorrenze quando tali disposizioni (come quelle sull’incentivazione al proseguimento dell’attività lavorativa e sulla stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferiscano, come si è sopra evidenziato, espressamente ed esclusivamente ai lavoratori che conseguono il diritto a pensione dopo il 31.12.2011 secondo la nuova normativa.

Certo non è vietato che un lavoratore che abbia raggiunto i requisiti pensionistici entro il 31.12.2011 possa scegliere di proseguire l’attività lavorativa, ma l’effettiva operatività di tale scelta è subordinata all’esistenza di una concorde e durevole volontà di parte datoriale che, se di diverso avviso, può legittimamente intimare un licenziamento ad nutum.

Non vi è discriminazione nel diverso trattamento risarcitorio delle ipotesi di nullità dei contratti a termine

sentenza della Corte di Giustizia UE, causa C-361/12, del 12 dicembre 2013.

Il ricorrente lamentava che il lavoratore illecitamente assunto a tempo determinato fruirebbe di una tutela meno favorevole rispetto a quella prevista in base ai principi del diritto civile, nonché di quella riservata al lavoratore assunto a tempo indeterminato licenziato illecitamente il quale, nei casi previsti dall’art. 18 l. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), ha diritto al versamento di un’indennità commisurata al lasso di tempo trascorso dal giorno del licenziamento illecito sino a quello dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.
La clausola 4 (Principio di non discriminazione), al punto 1, della direttiva 1999/70/CE (relativa all’accordo sul lavoro a tempo determinato), prevede che «per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive».
Secondo i giudici di Strasburgo, come risulta dalla formulazione letterale stessa della clausola 4, punto 1, in esame, la parità di trattamento non si applica fra lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato, non comparabili.
La Corte di Giustizia, di conseguenza, ha affermato che per valutare se l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine a un contratto di lavoro a tempo determinato e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato debba essere determinata in modo identico, occorre innanzitutto verificare se sia possibile ritenere che gli interessati si trovino in situazioni comparabili.
Constatato, nel caso in esame, che una di queste indennità riguarda lavoratori il cui contratto è stato stipulato in modo irregolare, mentre la seconda riguarda lavoratori licenziati, per i giudici europei ne consegue che la parità di trattamento fra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato comparabili non trova applicazione in una controversia come quella oggetto del procedimento principale.

Risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro - I criteri ribaditi dalla Cassazione

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 ottobre – 17 dicembre 2013, n. 28117
Presidente Stile – Relatore Marotta

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un umico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17 dicembre 2004, n. 23554, nonché più di recente Cass. 18 novembre 2010, n. 23319, 11 marzo 2011, n. 5887, 4 agosto 2011, n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 cod. civ., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione dei rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)".
Orbene nella fattispecie la Corte di appello, dopo aver richiamato tale ultimo indirizzo "oggettivo" (ed in specie Cass. n. 13891/2004 cit.), ha affermato che "il giudice è tenuto ad attribuire valore di dichiarazione negoziale a comportamenti sociali valutati in modo tipico, per ciò che essi socialmente esprimono", in tal modo disattendendo l’indirizzo prevalente ormai consolidato e qui ulteriormente ribadito.
In particolare la Corte territoriale in sostanza ha fondato la propria decisione soltanto sulla, pur prolungata, inerzia del lavoratore, sulla mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, nonché sull’avvenuta restituzione del libretto di lavoro e sull’accettazione senza riserva del t.f.r. (circostanze, a ben guardare, tutte incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore, sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati).
In tal modo la Corte di merito ha disatteso l’indirizzo consolidato qui ribadito, valutando le circostanze richiamate sul piano meramente oggettivo, anziché sotto il profilo della chiara e certa manifestazione tacita della volontà risolutiva di ogni rapporto.
...
Deve, dunque, essere ribadito che l’eventuale risoluzione del rapporto per mutuo consenso va accertata con particolare rigore e, ove non contenuta in un atto formale, deve risultare da un comportamento inequivoco che evidenzi il completo disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto stesso, essendo a tal fine prive di univoco valore sintomatico in tal senso, oltre all’illegittima apposizione del termine, anche la mancanza, pure se per un lungo periodo, di attività lavorativa, nonché la restituzione del libretto di lavoro al lavoratore e le stesse circostanze del versamento e dell’accettazione senza riserva, da parte del medesimo, di competenze economiche.

Pubblico impiego, crediti retributivi e prescrizione obbligo contributivo

La condanna del datore di lavoro alla regolarizzazione della posizione assicurativa di lavoratori dipendenti, aventi diritto a differenze retributive assoggettabili a contribuzione a favore dell'I.N.P.S., deve essere limitata al pagamento dei contributi per i quali, secondo le speciali disposizioni di legge che li regolano, non sia intervenuta la prescrizione.

venerdì 22 novembre 2013

CONTRATTI A TERMINE ILLEGITTIMI: LA CONVERSIONE OPERA ANCHE QUANDO SI TRATTA DI SOCIETA' IN HOUSE

Con sentenza n. 23702/2013 la Cassazione ha affermato che lo scopo perseguito dall’Ente finalizzato a fornire un servizio pubblico non è di per se stesso elemento sufficiente ad escludere la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato se l’attività viene esercitata con regole di natura privatistica (nel caso di specie un’azienda farmaceutica comunale costituita in SpA), in particolare per quel che attiene la disciplina dei rapporti di lavoro.

A questo link la sentenza integrale.

giovedì 21 novembre 2013

DATAZIONE DEL LICEZIAMENTO: VALE LA DATA DI SPEDIZIONE E NON QUELLA DI RICEZIONE

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 1° ottobre – 19 novembre 2013, n. 25917

Più precisamente la Corte ribadisce che, ai fini del rispetto del termine dei 5 giorni di spatium deliberandi minimo tra contestazione disciplinare e applicazione della sanzione, occorre avere riguardo  al momento in cui è stata esternata dal datore di lavoro la determinazione di licenziare il dipendente, vale a dire la data di spedizione della lettera di licenziamento (ovviamente se inviata a mezzo osta), e non già a quello in cui tale determinazione è venuta a conoscenza del medesimo (ricezione della lettera).

martedì 19 novembre 2013

LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO - I CRITERI RIBADITI DALLA SUPREMA CORTE

Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 12.06.2013 n° 14758

Ricorre l'ipotesi dello scarso rendimento qualora sia risultato provata sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione dei lavoratori e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività fra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (cfr., fra le altre, Cass. 22 febbraio 2006 n. 3876; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1632).
In queste ipotesi, la continuazione del rapporto si risolve in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
La gravità dell'inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.

Inoltre va assegnato rilievo all'intensità dell'elemento intenzionale, alle modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso e alla tipologia del rapporto medesimo.

domenica 10 novembre 2013

Anche per il collaboratore opera il divieto di concorrenza

Cassazione civile, sez. lavoro, 21 marzo 2013, n. 7141

Sebbene la legge (art. 2125 cod. civ.) non imponga al lavoratore autonomo e parasubordinato un dovere di fedeltà, tuttavia il dovere di correttezza della parte in un rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.) e il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.) vietano alla parte di un rapporto di collaborazione professionale di nuocere all’altra, sì che l’obbligo di astenersi dalla concorrenza permea, come elemento connaturale, ogni rapporto di collaborazione economica.
Il divieto di concorrenza nel rapporto di lavoro parasubordinato non è, perciò, riconducibile direttamente all’art. 2125 c.c., che disciplina il relativo patto di non concorrenza per il lavoratore subordinato alla cessazione del contratto, bensì alla previsione di cui all’art. 2596 cod. civ., che consente l’adozione di specifiche misure in tal senso, in sede contrattuale.
Art. 2596 cod. civ. “Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio”.

La ratio iegis, che, come emerge anche dai lavori preparatori alla stesura del codice civile, consiste, essenzialmente, nell’intenzione del legislatore di “evitare una eccessiva compressione della libertà individuale nel perseguimento di un’attività economica” (così, testualmente, la relazione ministeriale al codice civile, n. 1045, richiamata da Cass. 988/2004 cui si rinvia per l’ampia motivazione).
Coerente con la ratio prospettata, oltre che con la lettera della disposizione in esame (art. 2596 c.c.), è l’imposizione di condizioni di validità ed efficacia alle limitazioni pattizie della concorrenza, in funzione di tutela della libertà di concorrenza che costituisce, da un lato, espressione della libertà di iniziativa economica e persegue, dall’altro, la protezione dell’interesse collettivo, impedendo restrizioni eccessive della concorrenza e della positiva influenza che ne deriva alla qualità dei prodotti ed al contenimento dei prezzi. Ne deriva la scelta del legislatore per cui le attività economiche da considerare in concorrenza tra loro, ai fini e per gli effetti di cui all’art. 2596 c.c., vanno identificate in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi e/o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato.

martedì 29 ottobre 2013

COSTITUZIONE RSA IN AZIENDA - I CONFINI RIMARCATI DALLA CASSAZIONE

(Cassazione civ., sez. lavoro, Sentenza 25.9.2013 n. 21910)

La L. 20 maggio 1970 n. 300 devolveva i diritti sindacali posti nel titolo 3^ della stessa legge alle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell'ambito delle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (art. 19 lett. a), nonchè alle associazioni sindacali non affiliate alle suddette confederazioni ma risultanti firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva. 
La norma risultava fondata su un criterio selettivo della rappresentanza sindacale perchè era volta a riconoscere ampi poteri alle organizzazioni dei lavoratori storicamente collaudate, quali quelle espresse dal sindacalismo confederale, e ad estendere detti poteri anche a quelle associazioni, per le quali la stipula di contratti "nazionali o provinciali" dimostrava nei fatti una non marginale capacità di consenso in non ristretti ambiti territoriali. 
Come è noto, su tale normativa, cui era stato riconosciuto un indubbio carattere definitorio atto ad individuare i soggetti titolari dei singoli diritti sindacali disciplinati dall'art. 20 e segg. stat. lav., si è innestata la disciplina sulle "rappresentanze sindacali unitarie" (r.s.u.), previste dal Protocollo di Intesa trilaterale (Governo - Confindustria - Sindacato) del 23 luglio 1993, e regolate dall'accordo (delle tre Confederazioni con la Confindustria e con l'Intersind) del 20 dicembre 1993. Come risulta dagli atti difensivi delle parti in causa, detto accordo, da un lato, dispone che le organizzazione firmatarie o quelle che ad esso aderiscono successivamente acquistino il diritto di promuovere la formazione delle r.s.u. e di partecipare alle relative elezioni, rinunziando così alla costituzione di proprie r.s.a., e, dall'altro, contempla che le r.s.u. subentrino alle r.s.a. "nella titolarità dei diritti, dei permessi e libertà sindacali" del titolo 3^ dello statuto (art. 4, parte 1^) nonchè nella "titolarità dei poteri e nell'esercizio delle funzioni attribuite dalla legge" (art. 5, parte 1^). 
Da ultimo a rendere la materia in oggetto fonte di complesse problematiche - come attesta del resto la presente controversia - ha contribuito l'esito del referendum, svoltosi l'11 luglio 1995, di approvazione del secondo quesito diretto ad investire la lett. a) e le parole "nazionali o provinciali" della lettera b) dell'art. 19 stat. lav., con il risultato che oggi le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva solo nell'ambito delle associazioni "che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva".
E' stato osservato in dottrina che l'abrogazione referendaria della qualificazione, come nazionale o provinciale, dei contratti collettivi la cui stipulazione da titolo alla costituzione delle r.s.a. ha portato ad un allargamento delle maglie selettive attraverso le quali misurare la legittimazione delle organizzazioni ad esercitare le loro prerogative nelle diverse unità produttive. 
La validità di un tale assunto appare incontestabile se si osserva come attraverso l'abrogazione della lettera a) dell'art. 19 stat. lav. possa in astratto diminuirsi l'operatività a livello di singole unità produttive anche di organizzazioni sindacali che, pur maggiormente rappresentative sul piano nazionale, non risultino però firmatarie di contratti collettivi applicabili all'unità produttiva, e come di contro possano notevolmente ampliarsi nei luoghi di lavoro i poteri di organismi non collaudati sul piano storico e con seguito unicamente in un ristretto ambito territoriale. La rappresentatività utile per l'acquisto dei diritti sindacali nell'azienda viene così ad essere condizionata unicamente da un dato empirico di effettività dell'azione sindacale concretizzantesi nella stipula di qualsiasi contratto collettivo (nazionale, provinciale o aziendale) applicato nell'unità produttiva. Criterio questo che - come è doveroso ricordare in una ricostruzione storica delle diverse forme di "rappresentatività sindacale" - ha superato lo scrutinio di legittimità costituzionale (con riferimento agli artt. 3 e 39 Cost.) sul rilievo che "l'esigenza di oggettività del criterio legale di selezione comporta una interpretazione rigorosa della fattispecie dell'art. 19 tale da far coincidere il criterio con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro direttamente o attraverso la sua associazione, come controparte contrattuale", sicchè non è "sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto" e "nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, livello aziendale, di un contratto nazionale provinciale già applicato nella stessa unità produttiva" (in tali esatti sensi Corte Cost. 12 luglio 1996 n. 244 cui adde, per la statuizione che la rappresentatività negoziale valorizza l'effettività dell'azione sindacale, Corte Cost. 4 dicembre 1995 n. 492). Corollario di quanto sinora detto è che alla stregua della nuova normativa ben possono le rappresentanze sindacali aziendali essere costituite da una organizzazione sindacale di non rilevanza nazionale - perchè radicata in una specifica realtà geografica ma che sia tuttavia sottoscrittrice di un accordo collettivo applicato nell'unità produttiva di riferimento

venerdì 25 ottobre 2013

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soggettivo secondo la Cassazione

La sentenza di cui in seguito permette di riassumere, in maniera ampia e sistematica, la posizione attualmente espressa dalla Suprema Corte in tema di licenziamento per giustificato motivo sia oggettivo che soggettivo.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 settembre - 23 ottobre 2013, n. 24037
Presidente Stile – Relatore Blasutto
- come ritenuto da Cass. n. 21579 del 2008 (conf. Cass. n. 11775 del 2012), in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni inferiori siano compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.
- le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755/1998 conservano piena validità anche nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale; "anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell'impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità de lavoratore). Al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni" (sent. cit.).
- intanto il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, abbia prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori.
- non deve essere il lavoratore a dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la sua disponibilità a svolgere mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro prospettare al proprio dipendente, potenzialmente destinatario del provvedimento di licenziamento, in assenza di posizioni di lavoro alternative e compatibili con la qualifica rivestita, la possibilità di un suo impiego in mansioni di livello inferiore, di talché è il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
- l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell'ambito della organizzazione aziendale, gravante sul datore di lavoro, deve essere comunque mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sì che il lavoratore, pur non essendo gravato dalla relativa incombenza probatoria, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego. Tuttavia, la stessa giurisprudenza di questa Corte ha rilevato (v., in particolare, Cass. n. 7046 del 2011) che, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage, in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili. Non è vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).
-  nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, se il giustificato motivo oggettivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse.



- il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità (cfr., al riguardo: Cass. 22 agosto 2007 n. 17887);
- nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa, deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, tanto da imporre un'effettiva necessità di riduzione dei costi;
-  non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (in tal senso, v. Cass. n. 11465 del 2012 e Cass. n. 17087 del 2012, nonché ex plurimis: Cass. 25 marzo 2011 n. 7006, Cass. 26 agosto 2011 n. 19616, che precisa come la suddetta soppressione non possa essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma debba essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti e debba essere collegata ad effettive ragioni di carattere produttivo- organizzativo; v. pure Cass. 13021/2001; 2121/2004; 21282/2006);
-  occorre pur sempre - ed è questo l'ambito dell'accertamento demandato al giudice di merito - che risulti l'effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte dall'imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata attraverso l'indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economiche rimesse all'insindacabile scelta dell'imprenditore, la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento (ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso;
È vero che l'art. 41 Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, ma ciò significa che la libertà dell'imprenditore non equivale ad arbitrio e non è sottratta a qualsiasi controllo pubblico ed in particolare al controllo giurisdizionale. Ferma la insindacabile discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il giudice può così controllare il rispetto del diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma 1, art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i contrapposti interessi costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del lavoratore dipendente (cfr. Cass. 21710 del 2009);
il Collegato lavoro 2010 (non applicabile alla fattispecie ratione temporis) ha stabilito che "in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie relative al rapporto di lavoro privato o pubblico privatizzato contengano clausole generali, ivi comprese "le norme in tema di..... recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente" (art. 30, comma 1, l. n. 183 del 2010), con ciò ribadendo il principio - consolidato nella giurisprudenza di questa Corte - che non può essere sottratto al controllo giurisdizionale l'accertamento del "presupposto di legittimità" del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ipotesi di soppressione del posto di lavoro o in ipotesi di riduzione del personale;
-  il datore di lavoro ha l'onere di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 5893/1999, 12367/2003). Deve poi rilevarsi che possono considerarsi equivalenti a quelle espletate le mansioni oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, si armonizzano con la professionalità già acquisita dai lavoratore nel corso del rapporto, sì da impedirne la dequalificazione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 7370/1990).
-  ai sensi dell'art. 2103 cod.civ., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma (cfr. Cass. n. 6441/1988). Del pari, è stato ritenuto che non costituisce violazione dell'art. 2103 cod.civ. un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo (cfr. Cass. n. 9386/1993).
- Le Sezioni Unite (sentenza n. 7755/1998) hanno affermato che, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e artt. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore;
- A quest'ultimo riguardo, le Sezioni Unite hanno affermato che l'adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, neppure configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 cod. civ., ed anche art. 35 Cost., comma 2);

giovedì 17 ottobre 2013

LA SOLIDARIETA' DEL LAVORATORE E LA RITENUTA DEL DATORE DI LAVORO

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 23 maggio - 11 ottobre 2013, n. 23121
Presidente Cappabianca – Relatore Cigna

Con l'unico motivo l'Agenzia, deducendo -ex art. 360 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell'art. 35 dpr 602/73, rilevava che erroneamente la CTR aveva ritenuto che in presenza di un'unica fonte di reddito costituita da lavoro dipendente operasse il sistema della ritenuta d'imposta [con conseguente posizione residuale del sostituito e non applicabilità del detto art. 35); al riguardo evidenziava che il su menzionato art 35 si limitava all'espressa previsione della solidarietà tra sostituto e sostituito nella fase di riscossione ma che non vi era alcuna ragione per escludere i redditi di lavoro dipendente- che si pongono quale unica fonte di reddito- dall'applicabilità della ritenuta alla fonte a titolo di acconto (con conseguente previsione della solidarietà tra sostituito e sostituto ex art. 35 cit). Il motivo è fondato.
Va innanzitutto precisato che, come ribadito da questa Corte (v. Cass. 4509/2012), costituisce ritenuta a titolo di acconto quella operata su di un reddito che concorre a formare la base imponibile, mentre costituisce ritenuta a titolo di imposta quella operata su di un reddito non assoggettabile ad imposizione; in altre parole: se il reddito in questione non è esente da imposta e concorre a formare la base imponibile, la ritenuta è appunto un acconto, la cui definitiva congruità dovrà essere valutata in sede di consuntivo, il quale potrà evidenziare la sussistenza di un ulteriore debito o del diritto al rimborso; se, invece, il detto reddito non concorre a formare la base imponibile, la ritenuta costituisca un'imposta "secca", avendo evidentemente il legislatore ritenuto trattarsi comunque di una manifestazione di ricchezza, come tale assoggettabile a prelievo in via definitiva, in misura non ancorata all'ammontare complessivo dei redditi del contribuente.
Siffatta classificazione non appare, tuttavia, rilevante nel caso di specie, in quanto, a prescindere se la ritenuta sia prevista a titolo di imposta o a titolo di acconto, il fatto che il D.P.R. n. 600 del 1973, articolo 64, comma 1, definisca il sostituto d'imposta come colui che "in forza di disposizioni dì legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri... ed anche a titolo di acconto" non toglie che, in ogni caso, anche il sostituito debba ritenersi già originariamente (e non solo in fase di riscossione, come espressamente ribadito dai citato art. 35) obbligato solidale al pagamento dell'imposta; soggetto perciò egli stesso all'accertamento ed a tutti i conseguenti oneri. Fermo restando, ovviamente, il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo avere eseguito la ritenuta, non l'abbia versata all'erario, esponendolo così all'azione del fisco (Cass. 14033/2006; 24962/2010).

venerdì 11 ottobre 2013

nullità del contratto di somministrazione presso una Pubblica Amministrazione

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 1° ottobre 2013, ha affermato che pur in presenza di un contratto di somministrazione di manodopera nullo che ha riguardato, in qualità di utilizzatore, una Pubblica Amministrazione, non operano né la conversione del rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze di quest’ultima, né il diritto al godimento di un’indennità risarcitoria forfettaria. Quest’ultimo può essere riconosciuto soltanto in presenza di una prova rigorosa circa l’effettivo danno subito. Tutto questo in conseguenza del principio costituzionale (art. 97 Cost.) che disciplina l’assunzione dei lavoratori soltanto attraverso il pubblico concorso.

sabato 5 ottobre 2013

Conosciamo tutti il principio ordinariamente applicato in tema di obbligo di affissione del Codice disciplinare: ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass., n. 14997 del 2010).
Difficilmente il giudice che ravvisi una giusta causa di licenziamento accoglie l'eccezione di violazione dell'art. 7 SdL per l'omessa affissione del Codice, determinandosi un appiattimento tra la giusta causa ravvisata ed il minimo "etico o normativo" violato con il comportamento.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio – 3 ottobre 2013, n. 22626 Presidente Lamorgese – Relatore Tricomi - ci fornisce un (raro) caso di segno contrario.
Si tratta tuttavia di un rapporto di lavoro bancario che, come noto, è caratterizzato da alto tecnicismo.
La Corte afferma:

Ritiene questa Corte, in applicazione del suddetto principio, al quale si intende dare continuità, che mentre alcune condotte del direttore di filiale, quali l'accettazione distinte e documenti con firme non corrispondenti al c.d. specimen, o la mancata effettuazione delle registrazioni antiriciclaggio, ex sé, contrastano con il c.d. minimo etico o con norme penali, altre, come nel caso di specie, connesse alle possibili modalità di applicazione di alcuni istituti bancari, ad es. con riguardo ai termini di valutazione del rischio di illiquidità, possono integrare o collidere con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di congiunture economiche e di mercato, assunte dall'Istituto di credito, con la conseguente necessità della conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l'affissione del codice disciplinare.

lunedì 16 settembre 2013

Natura delle Casse edili e delle contribuzioni - le attività di recupero dei contributi inevasi

Autorità:  Cassazione civile  sez. lav.
Data:  07 maggio 2012
Numero:  n. 6869


Giova premettere che le Casse edili, organismi di origine contrattuale e sindacale, a carattere paritetico (perchè gestiti unitariamente da rappresentanti dei sindacati dei lavoratori e da rappresentanti dei datori di lavoro), sono investite del compito di assicurare ai lavoratori del settore edile il pagamento di alcune voci retributive (ferie, festività, permessi, gratifica natalizia, le somme relative all'anzianità professionale, cd. Ape) che, per l'elevata mobilità che caratterizza il settore, e per la conseguente durata ridotta dei rapporti, risulterebbero di importo minimo, e dunque di problematica erogazione. L'iter legislativo che, dapprima, ha semplicemente incoraggiato l'iscrizione delle imprese alle Casse Edili, è arrivato poi secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 10, a sancire l'obbligatorietà della regolarità contributiva nei confronti di detti enti.
Esse, inoltre, forniscono anche prestazioni che, pur conservando natura in senso lato retributiva, hanno anche una connotazione previdenziale ed assistenziale, ad esempio, integrando i trattamenti di malattia ed infortunio, oppure sostenendo il reddito dei lavoratori durante fasi di sospensione del rapporto dovute a crisi.
Tali prestazioni sono finanziate dai datori di lavoro, versando gli accantonamenti per le prestazioni di natura retributiva, nonchè i contributi di competenza per il resto (con un limitato apporto anche dei lavoratori).
Discende che le somme che il datore ha l'obbligo di versare alla Cassa Edile quali accantonamenti destinati al pagamento delle somme dovute per ferie, gratifiche natalizie e festività infrasettimanali, costituiscono somme spettanti ai lavoratori a titolo retributivo.
Poichè il meccanismo normativamente previsto per il pagamento da parte del datore ed il conseguente diritto dei lavoratori integra una delegazione (ex artt. 1269 e segg. c.c.: Cass. 27 maggio 1998 n. 5257), questa Corte ha condivisibilmente ritenuto che la Cassa stessa non diventa obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento, da parte del datore, delle somme stesse (Cass. n. 14658/2003; Cass. n. 16014/2006).

In tal modo, per la stessa natura retributiva delle somme che il datore ha l'obbligo di versare alla Cassa Edile, e per il fatto che l'obbligazione della Cassa Edile non sorge con la mera costituzione del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento, alla stessa, da parte del datore, deve affermarsi che, se ben può il lavoratore agire nei confronti del datore per il pagamento delle somme dovute per ferie festività e gratifiche natalizie, egualmente la Cassa ha l'obbligo di riscuotere le somme che il datore è tenuto a versare.

Nullità parziale di contratti a termine - Oneri di prova - L'utilizzo delle presunzioni


Di seguito riporto lo stralcio di una sentenza del Tribunale di Salerno, sezione Lavoro, GdL dott. Orio (n. 3457/2013), segnalatami gentilmente da un Collega, che, da quanto mi consta, fissa dei criteri del tutto originali rispetto all'ordinario orientamento.
Il giudizio verteva in tema di nullità di contratti a termine. L'azienda restava contumace e non produceva alcunchè, neppure il contratto di lavoro e, quindi, in alcun modo giustificava l'apposizione del termine.
Il Giudice afferma:

Quanto alla natura e tipologia del rapporto di lavoro, va innanzitutto precisato che manca in atti il contratto di assunzione formalizzato il 19/7/2008, di cui, come si è detto, v'è soltanto il certificato di avvenuta assunzione redatto dal Centro per l'Impiego, recante la dicitura "occupato dal 19/7/08 al 7/9/08 c/o XXX (Salerno) a tempo determinato part-time 24h. settimanali con la qualifica di chef de cuisine". Orbene, non v'è ragione per ritenere che l'accordo intercorso fra le parti sia stato elusivo delle disposizioni di cui alla legge 368/2001: in primo luogo è deduttivamente provata la forma scritta del contratto, stante la certificazione del Centro per l'Impiego che non avrebbe diversamente potuto attestare quanto risultante dagli atti dell'ufficio se si fosse trattato di un mero accordo verbale intercorso fra l'amministratore della società datrice ed il lavoratore; in secondo luogo, mancando l'atto non si può escludere che in esso, soprattutto perché redatto dopo una ispezione INAIL/INPS, sia stata preveduta una clausola di fine rapporto motivata da esigenze organizzative collegate alla stagionalità ovvero dalla necessità di soddisfare temporaneamente l'esigenza di garantire la preparazione e la somministrazione di pasti in un periodo di maggiore afflusso di clientela, il che è del tutto coerente con il periodo in cui l'xxx abbia effettivamente prestato la propria attività lavorativa presso il ristorante/pizzeria (dagli inizi del mese di giugno al 7 settembre); e d'altronde, sarebbe stato onere di parte fornire la dimostrazione della elusione normativa attraverso la contestazione delle ragioni che avevano motivato il datore di lavoro a stipulare un contratto a tempo determinato. Non è quindi fondata la domanda di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

giovedì 12 settembre 2013

Omesso versamento di contributi previdenzial - Perdita della pensione - Configurabilità del danno


Riporto stralcio della sentenza CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 settembre 2013, n. 20827
Ai sensi dell'art. 2116, primo comma, cod. civ. le prestazioni previdenziali sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l'imprenditore non ha versato i contributi. Il secondo comma aggiunge che, qualora le istituzioni di previdenza, per mancata o irregolare contribuzione, non siano tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore. Questa seconda disposizione deve essere intesa nel senso che, qualora le dette istituzioni non possano ricevere i contributi per essere il relativo credito estinto per prescrizione, non può trovare applicazione la disposizione del primo comma, e da ciò il danno a carico del lavoratore, che il datore di lavoro è tenuto a risarcire. E' da ricordare che, maturato il termine di prescrizione, come avvenuto nel caso di specie, il credito contributivo si estingue di diritto, ossia senza necessità dell'eccezione del debitore richiesta in via di regola dall'art. 2938 cod. civ. (vedi art. 3, comma 9, legge 8 agosto 1995, n. 335). Suole dirsi che in questo caso la prescrizione ha efficacia realmente estintiva del diritto soggettivo, e non soltanto preclusiva di ogni controversia su di esso. Affermato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno da omessa contribuzione, si pone il problema del momento di decorrenza della sua prescrizione. Su tale questione la giurisprudenza di questa Corte non ha dato risposte sempre uniformi. Le oscillazioni derivano dalla difficoltà di bilanciare due contrapposti interessi: quello del lavoratore, protetto dall'art. 38 cpv. Cost., all'effettivo conseguimento del beneficio previdenziale o al ristoro del danno derivante dalla sua perdita, e quello del datoore di lavoro, protetto dall'art. 24 Cost, a resistere efficacemente in giudizio contro la pretesa risarcitoria del dipendente; diritto che può essere sacrificato, specie quanto alla raccolta e conservazione delle prove, dal troppo lungo indugio nell'esercizio di detta pretesa della controparte, che si avvantaggi di un protratto exordium praescriptionis. In un primo tempo questa Corte ritenne che la prescrizione iniziasse a decorrere dal giorno in cui, estinto il diritto dell'istituto assicuratore al versamento dei contributi, può considerarsi già avverato il danno per il lavoratore: in questo giorno inizierebbe perciò a decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1975 n. 1744). A questa statuizione si è obiettato che, quando il danno da omessa contribuzione consista, come avviene quasi sempre e come è avvenuto nel caso di specie, nella perdita della pensione, esso non può considerarsi realizzato, e non è pertanto risarcibile, prima che il lavoratore abbia raggiunto nell'età pensionabile; da questo momento, e non prima, può pertanto decorrere la prescrizione, in aderenza alla lettera dell'art. 2935 cod. civ. (Cass. Sez. Un. 18 dicembre 1979 n. 6568). Questo orientamento ha prevalso ed è stato confermato successivamente (ex multis Cass. 15 aprile 1999 n. 3778, Cass. 25 febbraio 2004 n. 2774) per cui sono rimaste anche superate le pronunce che collocano l'esordio della prescrizione nel giorno in cui l'istituto assicuratore comunica il provvedimento negativo del beneficio (Cass. 4 giugno 1988 n. 3790) Tutto ciò dimostra l'infondatezza della prima censura: raggiunta dal lavoratore l'età pensionabile nel 1994 e trattandosi di risarcimento del danno contrattuale ossia di prescrizione ordinaria decennale, l'azione fu tempestivamente esercitata nel 2002.
La posticipazione della decorrenza della prescrizione nuoce, certamente e come si è detto, alle possibilità difensive del datore di lavoro il quale si trova esposto a pretese risarcitone anche a distanza di decenni dall'ultima omissione contributiva, dedotta da chi affermi di avere prestato lavoro.
La lunghezza del termine o la protrazione della sua decorrenza possono favorire una sorta di "abuso della prescrizione" da parte del titolare, che si avvantaggia nell'astenersi dall'esercizio del diritto ossia dalla cura dei suoi interessi, evitando, ad esempio, di chiedere il risarcimento del danno che aumenta con il trascorrere del tempo. L'ordinamento offre allora al soggetto passivo del diritto la possibilità di reagire attraverso l'invocazione dell'art. 1227 citato, che permette la diminuzione del risarcimento per concorso colposo nella produzione del danno.
Talvolta provvede la legislazione speciale, ad esempio nel diritto del lavoro attraverso una specifica disposizione contro il ritardo del lavoratore nell'esercizio di impugnazione giudiziale del licenziamento, sostituendo un breve termine di decadenza a quello di prescrizione (art. 32, comma 1 della legge 4 novembre 2010 n. 183, modificato dall'art. 1, comma 38 della legge 28 giugno 2012, n. 92).
Una volta maturata la prescrizione del credito contributivo spettante all'ente previdenziale, il prestatore di lavoro, che perderà in tutto o in parte il diritto alla prestazione pensionistica, dispone di un rimedio immediato, apprestato dall'art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.
Tale norma, al primo comma, attribuisce al datore di lavoro che abbia omesso di versare i contributi e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione, il diritto di chiedere all'Istituto previdenziale di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi. A norma del quinto comma il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore la costituzione di detta rendita, può sostituirsi al datore salvo il diritto al risarcimento del danno.

Pertanto, maturata la prescrizione del credito contributivo, il lavoratore è titolare delle seguenti posizioni soggettive: a) nei confronti dell'Istituto, del diritto alla costituzione della rendita vitalizia; b) nei confronti del datore di lavoro, del diritto a che questi versi all'Istituto la riserva matematica per la costituzione della rendita; e) in caso di inadempimento del datore, del diritto alla restituzione di quanto versato all'Istituto in esecuzione del quinto comma ora citato (Cass. 29 dicembre 1999 n. 14680). L'ingiustificata mancanza si esercizio di una di queste situazioni soggettive costituisce fatto colposo del lavoratore, che concorre ad aggravare il danno da omessa contribuzione, oppure difetto dell'ordinaria diligenza idonea ad elidere il danno stesso. Questi fatti possono diminuire il risarcimento oppure escluderlo, secondo una gravità della colpa ed un'entità delle conseguenze la cui valutazione è riservata al giudice di merito (cfr. art. 1227 citato, primo e secondo comma).

lunedì 5 agosto 2013

Contratti a termine e mutuo consenso risolutivo

La Suprema Corte torna ad occuparsi del caso, peraltro molto frequente nella casistica giurisprudenziale (pensiamo solo ai contenziosi "Poste Italiane" ed "Autostrade") dell'azione di nullità parziale di contratti a termine instaurata molto tempo dopo l'effettiva cessazione del rapporto e, ovviamente, in assenza delle ben note ipotesi decadenziali.
La difesa delle aziende è in tali casi incentrata sulla presupposta risoluzione del rapporto per mutuo consenso: il lasso di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto e l'iniziativa giudiziale, a prescindere dai profili decadenziali, sarebbe indice della comune volontà risolutiva.
La Suprema Corte ribadisce che non è così, almeno non è possibile applicare la presunzione invocata:
Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell'illegittima apposizione del termine ad una serie di contratti intervallati da periodi di inattività, é necessario, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che sia accertata una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo.
Ciò significa escludere il ricorso a presunzioni e fondare la decisione solo su atti inequivocabili.

Sarà inoltre il datore di lavoro, che eccepisca in giudizio la risoluzione consensuale del rapporto, a dover fornire la prova certa e rigorosa di tale comune volontà, dimostrando le circostanze idonee a far ricavare la volontà chiara e certa delle parti di porre termine ad ogni rapporto.

Privo di pregio dunque il motivo di censura proposto dall’Ente ricorrente. Secondo la Corte di legittimità, la decisione impugnata si pone in assoluta conformità ai principi più volte affermati sul punto dalla Corte di Cassazione.

A questo link la sentenza integrale.

venerdì 12 luglio 2013

natura contributiva dei versamenti ai fondi di previdenza complementare - la disciplina fiscale

Riporto uno stralcio di Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 aprile - 3 luglio 2013, n. 16587.

Trattandosi, ed è pacifico, di fondo di previdenza integrativa, i versamenti erano preordinati non certo all'immediato soddisfacimento del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, sono stati, e dovevano essere, accantonati e non direttamente corrisposti, per garantire il trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, o in caso di invalidità sopravvenuta, secondo le condizioni previste dal relativo statuto e con divieto di distrazione ai sensi dell'art. 2117 cod. civ..
Vero è infatti che ai diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro accede, in questi casi, un ulteriore rapporto contrattuale, che obbliga il datore ai versamenti per garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa di quella obbligatoria.
Questo ulteriore rapporto costituisce un indubbio beneficio per il lavoratore, il quale però non altera, né modifica, né si compenetra con i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ed in particolare, non incide sulle modalità di erogazione delle indennità ricollegate alla fine del rapporto medesimo.
4. Il beneficio, che al lavoratore apporta il rapporto di previdenza integrativa, non è costituito dai "versamenti" effettuati dal datore, ma dalla pensione che con essi verrà conseguita.
La contribuzione infatti, data la funzione del Fondo, per sua natura non può entrare nel patrimonio dei lavoratori interessati, i quali possono solo pretendere che venga versata al soggetto indicato nello Statuto. Il lavoratore non la riceve né nel corso del rapporto, né alla sua cessazione, essendo solo il destinatario di una aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, che si concreterà esclusivamente al maturarsi di certi requisiti e condizioni.
Il rapporto di previdenza integrativa ha certamente come necessario presupposto l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, ma ha poi regole proprie, tra le quali quella essenziale è certamente l'obbligo del versamento, a carico del datore di una contribuzione, ed a favore non certo del lavoratore ma, necessariamente, a favore del soggetto onerato della prestazione integrativa. Questo obbligo non può però "rifluire" sul rapporto di lavoro ed alterarne la fisionomia, perché non è in nesso di corrispettività diretta con la prestazione lavorativa.


Il carattere non retributivo dei versamenti effettuati dal datore per la previdenza integrativa è avvalorato dal regime previdenziale che li regola.

Va così definitivamente stabilito che i versamenti effettuati dal datore ai fondi di previdenza complementare, quali che siano i lineamenti del Fondo, non sono assoggettati a contribuzione Inps ma solo ad un contributo di solidarietà (valido a regime e riferito anche al passato ma solo per gli anni dal 1 settembre 1985 al 30 giugno 1991), così escludendosi che questi abbiano natura retributiva.
Si badi poi che l'esonero dalla contribuzione AGO non vale solo per il periodo successivo all'entrata in vigore del DL 103/91, ma anche anteriormente, fin dal'inizio della istituzione di detti fondi, stante il carattere retroattivo di questa disposizione, come espressamente confermato dall'art. 1 comma 193 della legge 662/96 che ha sostituito l'art. 9 bis del DL 103/91, convertito in legge 166/91. Quindi i predetti contributi hanno, ed hanno sempre avuto, natura previdenziale e non retributiva, onde è infondata la pretesa al loro inserimento nelle indennità conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro.
Va ancora considerato che i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi dell'art. 3 comma 2 lettera a) d.lgs. 314/97.


La sentenza integrale a questo link

Le ipotesi di nullità del ricorso ex art. 414 c.p.c. - La mancata comunicazione dei motivi del licenziamento in area di tutela obbligatoria

Allego, a questo link, la sentenza Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 marzo - 10 luglio 2013, n. 17122 che riforma una sentenza della Corte di Appello di Napoli, a sua volta relativa ad una sentenza del Tribunale di Torre Annunziata (dott.ssa Palumbo).
Il ricorso è stato curato dai colleghi Fedelmassimo Ricciardelli, Gemma Trombetta e Stefania Palescandolo.
La sentenza chiarisce alcuni punti molto ricorrenti nella ordinaria casistica.

1) I casi di nullità del ricorso introduttivo.
(riporto lo stralcio di interesse)
In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte nel rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto che ne costituiscono il fondamento non è sufficiente che taluno di tali elementi non venga formalmente indicato, ma è necessario che attraverso l'esame complessivo dell'atto - che compete al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione - sia impossibile l'individuazione esatta della pretesa dell'attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa (Cass. 9 maggio 2012, n. 7097; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126; Cass. 23 marzo 2004, n. 5794; Cass. 25 luglio 2001, n. 10154; Cass. 1 marzo 2000, n. 2257; Cass. 1 luglio 1999, n. 6714; Cass. 29 gennaio 1999, n. 817; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2205; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296).
In applicazione a tali indirizzi la suddetta nullità è stata esclusa, con riferimento ad ipotesi di domande aventi ad oggetto spettanze retributive:
a) allorché l'attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l'orario di lavoro, l'inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (vedi, per tutte: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126 cit.; Cass. 7 gennaio 2003, n. 41; Cass. 20 gennaio 1999, n. 817);
b) qualora l'attore abbia indicato i titoli delle spettanze retributive richieste, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, restando a tal fine irrilevante la mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell'attore medesimo di modificarne l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 24 ottobre 2008, n. 25753; Cass. 20 marzo 2004, n. 5649; Cass. 5 ottobre 2002, n. 14292);
c) se il giudice del merito abbia ritenuto che il ricorso introduttivo non consentisse di individuare gli estremi della domanda - sul rilievo che in esso non veniva indicato quale fosse in concreto il tipo di rapporto di dipendenza dedotto e non venivano precisate le relative modalità operative - avendo questa Corte, viceversa, precisato che il ricorso introduttivo, contenendo l'indicazione in cifra di vari crediti retributivi riferiti tutti a titoli tipici ed esclusivi di un rapporto di lavoro subordinato, era da considerare conforme all'art. 414 cod. proc. civ., in quanto le suddette indicazioni dovevano considerarsi sufficienti a configurare il petitum e ilthema decidendum, mentre le carenze rilevate dal giudice del merito riguardavano elementi che il ricorrente aveva l'onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154 cit.), cioè elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione si pone in contrasto a quanto prescritto dall'art. 414 n. 5 cod. proc. civ. ma non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);
d) nell'ipotesi in cui il giudice del merito, in sede di appello, possa trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316; Cass. 9 maggio 2012, n. 7097 cit.), ciò in quanto l'individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l'esame complessivo dell'atto introduttivo del giudizio, deve compiersi anche d'ufficio e anche in grado di appello (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n. 14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296);
e) allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, visto che, in tale ipotesi, l'accertamento del giudice del merito deve estendersi, con eguale profondità, al contenuto degli allegati richiamati, i quali, specialmente se di natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale, sicché il giudice del merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei, non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si sottragga al sindacato di legittimità (Cass. 19 maggio 2009, n. 11599; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 21 settembre 2004, n. 18930).

5.2.- Dall'insieme dei su riportati orientamenti si desume che il criterio generale cui sono ispirati è quello secondo cui l'atto introduttivo del giudizio deve essere interpretato - sulla base del generale principio di conservazione dell'atto al raggiungimento del proprio scopo, che governa tutte le nullità anche processuali - alla luce dei principi regolatori del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. e, in particolare, della garanzia del diritto di difesa, sancita anche dall'art. 24 Cost..
Ciò vale, a maggior ragione nel rito del lavoro i cui principi informatori (come si desume fin dalla legge istitutiva 11 agosto 1973 n 533) sono finalizzati soprattutto all'esigenza di tenere conto delle peculiari caratteristiche dei rapporti sottostanti - nei quali il lavoratore si configura come il contraente più debole, tanto più in caso di licenziamento - tanto che il rigoroso sistema di preclusioni in esso previsto in materia di produzioni probatorie trova un contemperamento - ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 421 cod. proc. civ. e dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).

2) La mancata comunicazione dei motivi del licenziamento in area di tutela obbligatoria: la disciplina risarcitoria applicabile.

La questione è quella delle conseguenze del licenziamento inefficace -per mancata comunicazione dei motivi, richiesta dal lavoratore - nei rapporti assoggettati alla stabilità obbligatoria.
Tale questione è stata oggetto di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, delineatosi per effetto di Cass. 23 dicembre 1996, n. 11497, che discostandosi dalla giurisprudenza prevalente, aveva ritenuto applicabile all'ipotesi di mancata tempestiva comunicazione dei motivi di recesso anziché la disciplina della nullità del licenziamento quella sui licenziamenti individuali, con conseguente obbligo di riassunzione o, in alternativa, corresponsione dell'indennità a ristoro del danno subito, come previsto (e nella misura stabilita) dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 - in sede di composizione di tale contrasto - ha affermato il principio secondo cui "nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 legge n. 108 del 1990, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 legge n. 108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali inficianti l'atto e, in particolare, senza che possa ritenersi applicabile al vizio della mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604/66 cit. per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica".
Tale principio è rimasto fermo nella giurisprudenza di questa Corte attraverso molteplici applicazioni, tutte basate sulla premessa secondo cui nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore.
È stato così affermato che nella suindicata situazione:
a) non si possono fare distinzioni tra i diversi vizi formali, ritenendo applicabile a quello derivante dalla mancata comunicazione dei motivi del recesso la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 8, legge n. 604 del 1996; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, ma solo il diritto al risarcimento del danno, che va determinato secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni ed eventualmente quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso alla data della pronuncia che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento (Cass. 18 agosto 2003, n. 12079);
b) non è applicabile la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604 del 1966 per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ma, nel caso di difetto di attuazione della prestazione lavorativa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, normalmente quantificabile con riferimento alle retribuzioni perse. Per la determinazione di tale danno deve essere valutata sia l'incidenza di un eventuale successivo licenziamento formale idoneo a produrre ex nunc effetti risolutivi del rapporto, sia la tempestiva deduzione dell’aliunde perceptum. Pertanto il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento delle "retribuzioni medio tempore non corrisposte", senza attribuire rilevanza alla successiva intimazione formale del licenziamento e senza esaminare la deduzione in appello dell’aliunde perceptum, con richiesta di prova in riferimento al periodo successivo al giudizio di primo grado (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946);
c) non è necessaria - per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento - la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l'offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative (Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392);
d) la conseguenza del fatto che il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966 e succ. mod. non produce effetti sulla continuità del rapporto - che deve pertanto considerarsi mai interrotto - consiste, per i rapporti non rientranti nell'area della tutela reale, nel riconoscimento al lavoratore del diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell'adempimento dell'obbligazione retributiva che siano messe a disposizione le operae e, cioè, che vi sia l'offerta, della prestazione lavorativa, mediante formale costituzione in mora o, comunque, con altra modalità (Cass. 30 agosto 2010, n. 18844);
e) il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace, per inosservanza dell'onere della forma scritta, imposto dall'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale od obbligatorio), giacché la sanzione ivi prevista non opera soltanto nei confronti dei lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), sicché la radicale inefficacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando applicazione l'ordinario regime risarcitorio, con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento datoriale (Cass. 10 settembre 2012, n. 15106; Cass. 1 agosto 2007, n. 16955).
6.2.- La Corte partenopea, pur muovendo dall'esatta duplice premessa che il licenziamento del V. deve considerarsi inefficace - per mancata risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 - e che al rapporto di lavoro in oggetto va applicata la tutela obbligatoria, tuttavia nel determinare le conseguenze risarcitorie di tale licenziamento si è discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e su riportati.
Dalla sentenza risulta, infatti, che la Corte territoriale ha a tal fine, erroneamente, dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell'inadempimento contrattuale, facendo, in particolare, riferimento al generale regime della nullità del contratto a prestazioni corrispettive richiamato da Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 e dalla successiva giurisprudenza ad essa conforme.
Come rilevato dal ricorrente, se la Corte d'appello avesse correttamente applicato la suindicata disciplina avrebbe dovuto affermare l'obbligo della società CA.VER di corrispondere al lavoratore - trattandosi di rapporto di lavoro ancora in atto - le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento, non potendo nutrirsi dubbi sulla persistenza del vincolo contrattuale (desumibile dall'offerta della prestazione lavorativa da parte dell'interessato) e sull'imputabilità dell'inadempimento alla datrice di lavoro, il cui comportamento avrebbe dovuto essere valutato anche tenendo conto dalla intimazione al ricorrente di un nuovo licenziamento, dopo la sentenza di primo grado del presente giudizio, ancora una volta effettuata in totale violazione dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966.