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sabato 13 aprile 2013

IL DIBATTITO SULLA FACOLTATIVITÀ O MENO DEL “RITO FORNERO”


I comma 47 e 48 (prima parte) dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 recitano:
47. Le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
48. La domanda avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all'articolo 125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Tale è la lettera della legge, nella parte che oggi interessa.
Dopo una iniziale e generale perplessità sembra prevalere la tesi dell’obbligatorietà del rito nelle ipotesi contemplate dalla norma. Ovviamente per “obbligatorietà” intendiamo l’impossibilità per chi impugna licenziamento in area di tutela reale, di agire con rito ordinario. Per essere ancor più precisi, quindi, e allo stato dell’arte, il c.d. rito “Fornero” non è da intendersi quale rito speciale, bensì quale rito, per l’appunto, ordinario, nelle ipotesi in cui venga, in primis, invocata la tutela ex art. 18 SdL.
Tuttavia anche la ritenuta “obbligatorietà del rito” (locuzione, come detto, imprecisa ma efficace), presupposta alla scelta dell’Ufficio di ricondurre il tutto al rito Fornero, non è una soluzione del tutto pacifica ancora oggi.
Ad esempio, e per citare un caso emblematico, il Tribunale di Firenze (adottando una prassi che sarebbe auspicabile in tutti gli Uffici Giudiziari e, in particolare, nelle sezioni specializzate) in data 17/10/2012 ha prodotto un protocollo, condiviso da tutti i giudici della sezione, che indica le opzione interpretative applicabili a seguito della riforma procedurale.
La prima di tali indicazioni risiede proprio nella facoltatività del rito Fornero. Queste le indicazioni contenute nel documento (disponibile, se richiesto, in copia): “è facoltà della parte intraprendere un giudizio di impugnativa di licenziamento rientrante nell’art. 18 L. 300/70 con il rito previsto dalla riforma Fornero. Infatti è la parte attrice che deve valutare se nel caso concreto sia più utile procedere con tale nuovo rito o se sia più confacente agli interessi del cliente un ricorso ex art. 414 c.p.c. ( ad esempio perché la domanda si associa ad ulteriori richieste afferenti il rapporto di lavoro, come ad esempio differenze retributive, diverso inquadramento, ecc.). Depongono in favore di questa interpretazione sia il fatto che la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in materia di art. 28 L.300/70 (procedimento che ha qualche analogia con il rito in questione) ha già ritenuto ammissibile un’azione proposta ex art. 414 c.p.c., sia il fatto che, non essendo possibile presentare con il rito speciale domande diverse da quelle di cui al comma 47 dell’art. 1 della L. 92/2012, sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente abbia più istanze di tutela, a proporre più cause ( moltiplicando i processi)”.
A ciò si aggiunga che è risultata altrettanto prevalente la posizione di chi ritiene che la prima fase (sommaria) del rito sia superabile per accordo tra le parti. Tale soluzione si risolve, in pratica, nella possibilità di bypassare la fase che più di tutte caratterizza il c.d. rito Fornero, avviando, nella sostanza, direttamente l’ordinario giudizio a cognizione piena. Nonostante gli sforzi di chi ha inteso conciliare tale possibilità con la succitata “obbligatorietà”, non v’è chi non veda come da questa soluzione esca fortemente ridimensionata la suddetta “obbligatorietà”, o, quantomeno, fortemente diluita.
A ciò si aggiunga che tale “obbligatorietà” va contemperata con il pieno ed indiscutibile diritto di concentrare in un’unica azione giudiziaria le proprie rivendicazioni. O meglio: l’obbligatorietà suddetta va contemperata con l’altrettanto pacifico divieto di frazionamento della domanda.
Il divieto di frazionamento (da Cass. SS.UU. n. 23726/2007 in poi) non è riferibile solo all’impugnativa di licenziamento, ma anche alle eventuali differenze stipendiali che hanno origine dal medesimo rapporto di lavoro. Ed inoltre, all’interno dell’impugnativa di licenziamento, la tendenziale concentrazione delle domande deve (a maggior ragione) riguardare anche le domande poste in posizione di graduazione, come nel caso di una subordinata domanda di tutela obbligatoria proposta a partire dall’”identico fatto costitutivo” (per adoperare l’espressione del Legislatore) rappresentato dal licenziamento. Sul punto ci soffermeremo più estesamente nel prosieguo.
Orbene, si potrà tacciare di inammissibilità un’azione con la quale il lavoratore abbia ricondotto tutte le domande (impugnativa di licenziamento e richieste stipendiali) al rito, per così dire, “accelerato” previsto dalla riforma, da ritenersi senza dubbio alcuno di miglior favore per chi agisce in giudizio e, quindi, per il lavoratore; ma di certo non potrà validamente sollevarsi alcuna eccezione nel qual caso il lavoratore, nel pieno rispetto di quel principio di correttezza e buona fede che è presupposto al divieto di frazionamento della domanda, abbia proposto l’azione secondo l’ordinario rito e, quindi, rinunciando alla “corsia preferenziale” approntata dalla novella legislativa.

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