I comma 47
e 48 (prima parte) dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 recitano:
“47. Le disposizioni dei commi da 48 a 68 si
applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti
nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e
successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative
alla qualificazione del rapporto di lavoro.
48. La domanda avente ad oggetto l'impugnativa
del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso al tribunale in funzione
di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all'articolo
125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte
domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che
siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Tale è la
lettera della legge, nella parte che oggi interessa.
Dopo una
iniziale e generale perplessità sembra
prevalere la tesi dell’obbligatorietà del rito nelle ipotesi contemplate dalla
norma. Ovviamente per “obbligatorietà” intendiamo l’impossibilità per chi
impugna licenziamento in area di tutela reale, di agire con rito ordinario. Per
essere ancor più precisi, quindi, e allo stato dell’arte, il c.d. rito
“Fornero” non è da intendersi quale rito speciale,
bensì quale rito, per l’appunto, ordinario, nelle ipotesi in cui venga, in primis, invocata la tutela ex art. 18
SdL.
Tuttavia
anche la ritenuta “obbligatorietà del
rito” (locuzione, come detto, imprecisa ma efficace), presupposta alla
scelta dell’Ufficio di ricondurre il tutto al rito Fornero, non è una soluzione
del tutto pacifica ancora oggi.
Ad esempio,
e per citare un caso emblematico, il Tribunale di Firenze (adottando una prassi
che sarebbe auspicabile in tutti
gli Uffici Giudiziari e, in particolare, nelle sezioni specializzate) in data
17/10/2012 ha prodotto un protocollo, condiviso da tutti i giudici della
sezione, che indica le opzione interpretative applicabili a seguito della riforma
procedurale.
La prima di
tali indicazioni risiede proprio nella facoltatività del rito Fornero. Queste
le indicazioni contenute nel documento (disponibile,
se richiesto, in copia): “è facoltà della parte intraprendere un
giudizio di impugnativa di licenziamento rientrante nell’art. 18 L. 300/70 con
il rito previsto dalla riforma Fornero. Infatti è la parte attrice che deve valutare
se nel caso concreto sia più utile procedere con tale nuovo rito o se sia più
confacente agli interessi del cliente un ricorso ex art. 414 c.p.c. ( ad
esempio perché la domanda si associa ad ulteriori richieste afferenti il rapporto
di lavoro, come ad esempio differenze retributive, diverso inquadramento,
ecc.). Depongono in favore di questa interpretazione sia il fatto che la
giurisprudenza della Corte di Cassazione, in materia di art. 28 L.300/70 (procedimento
che ha qualche analogia con il rito in questione) ha già ritenuto ammissibile
un’azione proposta ex art. 414 c.p.c., sia il fatto che, non essendo possibile
presentare con il rito speciale domande diverse da quelle di cui al comma 47
dell’art. 1 della L. 92/2012, sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente
abbia più istanze di tutela, a proporre più cause ( moltiplicando i processi)”.
A ciò si
aggiunga che è risultata altrettanto prevalente la posizione di chi ritiene che
la prima fase (sommaria) del rito sia superabile per accordo tra le parti. Tale
soluzione si risolve, in pratica, nella possibilità di bypassare la fase che più di tutte caratterizza il c.d. rito
Fornero, avviando, nella sostanza, direttamente l’ordinario giudizio a
cognizione piena. Nonostante gli sforzi di chi ha inteso conciliare tale
possibilità con la succitata “obbligatorietà”, non v’è chi non veda come da
questa soluzione esca fortemente ridimensionata la suddetta “obbligatorietà”, o,
quantomeno, fortemente diluita.
A ciò si
aggiunga che tale “obbligatorietà” va contemperata con il pieno ed indiscutibile
diritto di concentrare in un’unica azione giudiziaria le proprie rivendicazioni.
O meglio: l’obbligatorietà suddetta va contemperata con l’altrettanto pacifico divieto
di frazionamento della domanda.
Il divieto
di frazionamento (da Cass. SS.UU. n. 23726/2007 in poi) non è riferibile solo
all’impugnativa di licenziamento, ma anche alle eventuali differenze
stipendiali che hanno origine dal medesimo rapporto di lavoro. Ed inoltre,
all’interno dell’impugnativa di licenziamento, la tendenziale concentrazione
delle domande deve (a maggior ragione) riguardare anche le domande poste in
posizione di graduazione, come nel caso di una subordinata domanda di tutela
obbligatoria proposta a partire dall’”identico fatto costitutivo” (per
adoperare l’espressione del Legislatore) rappresentato dal licenziamento. Sul
punto ci soffermeremo più estesamente nel prosieguo.
Orbene, si
potrà tacciare di inammissibilità un’azione con la quale il lavoratore abbia
ricondotto tutte le domande (impugnativa di licenziamento e richieste
stipendiali) al rito, per così dire, “accelerato” previsto dalla riforma, da
ritenersi senza dubbio alcuno di miglior favore per chi agisce in giudizio e,
quindi, per il lavoratore; ma di certo non potrà validamente sollevarsi alcuna eccezione
nel qual caso il lavoratore, nel pieno rispetto di quel principio di
correttezza e buona fede che è presupposto al divieto di frazionamento della
domanda, abbia proposto l’azione secondo l’ordinario rito e, quindi, rinunciando alla “corsia preferenziale”
approntata dalla novella legislativa.
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