Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12
novembre 2013 – 30 gennaio 2014, n. 4331
Presidente Squassoni – Relatore Graziosi
Presidente Squassoni – Relatore Graziosi
"3.1 II primo motivo adduce violazione dell'articolo 4, comma
2, L. 300/1970, negando che l'installazione dell'impianto audiovisivo sia di
per sé integrativa della condotta criminosa. La norma, invero, stabilisce: "Gli impianti e le
apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e
produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la
possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono
essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali
aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto
di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro,
dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti". La
norma, tuttora vigente pur non trovando più (cfr. Cass. sez. III, 24 settembre
2009 n. 40199) sanzione nell'articolo 38, comma 1, sempre dello Statuto dei
lavoratori dopo la soppressione del riferimento all'articolo 4 nel suddetto
articolo 38, comma 1, operata dall'articolo 179 d.lgs. 196/2003 (che colma la
lacuna con il combinato disposto dei suoi articoli 114 e 171), prevede una
condotta criminosa rappresentata dalla installazione di impianti audiovisivi
idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori, qualora non vi sia stato
consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati:
Cass. sez. III, 17 aprile 2012 n. 22611) o permesso dall'Ispettorato del
lavoro. Secondo il ricorrente, tuttavia, non è sufficiente l'installazione
dell'impianto, occorrendo anche una "successiva verifica della sua
idoneità": e poiché l'impianto "è stato eseguito in conformità al
progetto allegato alla richiesta di autorizzazione in seguito approvato, è
palese che il reato non sussiste perché le modalità delle riprese visive,
peraltro effettuate soltanto dopo ottenuta l'autorizzazione della D.P.L., non
sono tali da ledere la privacy dei lavoratori". Che
l'idoneità degli impianti a ledere il bene giuridico protetto, cioè il diritto
alla riservatezza dei lavoratori, sia necessaria affinché il reato sussista
emerge ictu oculi dalla lettura del testo normativo - idoneità
che peraltro è sufficiente anche se l'impianto non è messo in funzione, poiché,
configurandosi come un reato di pericolo, la norma sanziona a priori l'installazione,
prescindendo dal suo utilizzo o meno -. L'esistenza di tale idoneità, invece, si colloca sul
piano fattuale, per cui sono inammissibili al riguardo le doglianze del
ricorrente. Ad abundantiam si osserva comunque che tale
accertamento è stato effettuato, come emerge dalla descrizione dell'impianto
nella sentenza impugnata, impianto inclusivo di otto microcamere a circuito
chiuso, "alcune puntate direttamente sulle casse": ed è dei
lavoratori alle casse che l'imputazione contesta la violazione della privacy.
3.2 Il secondo motivo lamenta la mancata concessione del beneficio di cui
all'articolo 175 c.p., sulla base del fatto che il Tribunale sarebbe incorso in
"una macroscopica contraddizione" laddove ha ritenuto più favorevole
all'imputato non concedere i benefici di legge, il che non sarebbe
condivisibile quanto alla non menzione nel certificato del casellario
giudiziale. Il motivo è manifestamente infondato, poiché - se lo si intende,
conservativamente, come denuncia di vizio motivazionale - non sussiste
incongruità nel ragionamento del Tribunale, in quanto il modestissimo livello
dell'ammenda (Euro 200) logicamente incide in senso negativo sull'opportunità
di concedere qualunque beneficio di legge. Peraltro, non si può non rilevare
che lo stesso imputato, nelle sue conclusioni, non ha chiesto la concessione di
alcun beneficio di legge e che, qualora in sede di merito non sia stato
richiesto il beneficio della non menzione, la sua mancata concessione non è
deducibile con il ricorso per cassazione (Cass. sez. IV, 29 ottobre 2008 n.
43125).
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende".
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende".
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