CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 gennaio 2014, n. 1477
Lavoro - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore
di lavoro - Esposizione all’amianto - Fibrosi polmonare - Mancanza di misure
generiche di prudenza - Tutela della salute dal rischio espositivo -
Risarcimento dei danni
Nesso causale tra ambiente di lavoro malsano e malattia.
"...trova applicazione "la regola contenuta nell'art. 41
cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal
principio dell'equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va
riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito,
anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il
temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il
nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da
solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici
occasioni" (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003 n. 6722).
Del resto, come è stato costantemente affermato in generale,
in ambito civilistico la prova del nesso causale consiste anche nella relazione
probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il
criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del "più
probabile che non" (v. fra le altre Cass. 16-1-2009 n. 975, cfr. Cass.
16-10-2007 n. 21619, Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass.
21-7-2011 n. 15991).
In particolare, poi, è stato anche precisato che "nel
caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo
all'origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici
presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di
una concreta e specifica dimostrazione, e, se questa può essere data anche in
termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie
(essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza
dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di "probabilità
qualificata", da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come ad
esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica
in certezza giudiziale (v. Cass. 12-5-2004 n. 9057).
Nella fattispecie la Corte territoriale sulla base delle
valutazioni e delle conclusioni della CTU, applicando i principi sopra
richiamati, legittimamente ha ritenuto provato nella specie il nesso causale
tra l’esposizione professionale all’amianto e la genesi della patologia
polmonare contratta, non essendo, d’altra parte, emerse rilevanti cause
interruttive del detto nesso causale.
In particolare la Corte non soltanto ha fatto proprie le
valutazioni epidemiologiche dell’ausiliare, bensì ha anche accertato, in base
alla prova testimoniale, che il B., pur avendo lavorato soltanto per tre anni
presso la N. S. "è stato esposto al rischio di inalazione di fibre di
amianto in modo massiccio quale addetto ai vari lavori tra i quali
principalmente la miscelazione", in un ambiente privo delle necessarie
misure di sicurezza all’epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti
polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento
delle polveri con l’umidificazione".
Sulla prevenibilità dell’evento dannoso.
"Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, la
responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura
contrattuale, per cui "ai fini del relativo accertamento, incombe sul
lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta,
un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure
la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro
elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia
provato le predette circostanze - l’onere di provare di aver fatto tutto il
possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele
necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo" (v. Cass.
17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-3- 2006 n. 4840, Cass.
24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-2- 2000 n. 1886).
In sostanza "la responsabilità dell’imprenditore per la
mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del
lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano
rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale
impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte
quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai
dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei
lavoratori" (v. tra le altre Cass. 19-4-2003 n. 6377, Cass. 1-10-2003 n.
16645).
In particolare, con riguardo all’inalazione di polveri di
amianto questa Corte ha precisato che "la responsabilità dell'imprenditore
ex art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma
non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche
preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie
costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e
cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di
lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore
possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato
momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato
dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere
del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica
disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela
della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di
insorgenza della malattia." (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr.
Cass. 1-2-2008 n. 2491, Cass. 14-1-2005 n. 644).
Del resto, come è stato chiarito da Cass. 30-6-2005 n.
14010, seppure all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per
il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte col DPR 10 febbraio
1982 n. 15), senz’altro si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il
rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in relazione alla norma di
chiusura di cui all'art. 2087 cc ed all'art. 21 del DPR 19 marzo 1956 n. 303,
ove si stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di
polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare
provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e
la diffusione nell'ambiente di lavoro" soggiungendo che "le misure da
adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro
concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla
pericolosità delle polveri".
Orbene la sentenza impugnata, sul punto, nel respingere la
tesi della società, dopo aver premesso che "la normativa del 1956 già
contemplava alcune misure specifiche" (quali la segregazione degli
ambienti polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e
l’abbattimento delle polveri con l’umidificazione), ha accertato, in base alle
risultanze della prova testimoniale, che tali misure, senz’altro già
disponibili all’epoca ed idonee ad abbattere significativamente la polverosità
e quindi anche ad evitare l’insorgenza della malattia, non sono state affatto
adottate in N. S., essendo anzi emerso che: "il reparto di miscelazione
era separato dagli altri (ma non segregato), non vi sono stati per molti anni
aspiratori, successivamente vennero adottati aspiratori inadeguati e svariate
erano le mansioni che implicavano l’esposizione diretta alla polvere non
inumidita, comprese quelle di pulizia di macchine dal materiale secco, dello
spostamento dei sacchi di tela contenenti la polvere di amianto, del
caricamento dei miscelatori (fatto a mano se le pale erano rotte) e della
manipolazione degli impasti, di cui i lavoratori rimanevano
impiastricciati".
Pertanto la Corte di merito ha ritenuto nella specie provata
la condotta colposa omissiva della società, "sotto il profilo della
mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, della mancata
adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni
suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione
adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui
erano addetti e alle cautele da osservare (relative alle tute, stivali ecc. e
al trattamento di detti indumenti)", considerando tali omissioni rilevanti
"a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e
alle loro caratteristiche tecniche" all’epoca.