La sentenza di cui in seguito permette di riassumere, in maniera ampia e sistematica, la posizione attualmente espressa dalla Suprema Corte in tema di licenziamento per giustificato motivo sia oggettivo che soggettivo.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 settembre -
23 ottobre 2013, n. 24037
Presidente Stile – Relatore Blasutto
- come ritenuto da Cass. n. 21579 del 2008 (conf. Cass.
n. 11775 del 2012), in caso di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del
licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore
licenziato, ha l'onere di
provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna
posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere
assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a
quelle svolte, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza
ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori
rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni inferiori siano
compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito
dall'imprenditore.
- le ragioni poste a fondamento della ricordata
pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755/1998 conservano piena validità anche
nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a
soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale;
"anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione
di fatto (inerente al nuovo assetto dell'impresa anziché alla sopravvenuta
inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento
del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla
conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della
professionalità de lavoratore). Al contempo analoghi devono ritenersi i limiti
alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da
individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa
insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore
all'adibizione a tali mansioni" (sent. cit.).
- intanto il consenso
del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro, in
ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, abbia
prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale
specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione
in mansioni inferiori.
- non deve essere il
lavoratore a dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la
sua disponibilità a svolgere mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro
prospettare al proprio dipendente, potenzialmente destinatario del
provvedimento di licenziamento, in assenza di posizioni di lavoro alternative e
compatibili con la qualifica rivestita, la possibilità di un suo impiego in
mansioni di livello inferiore, di talché è il mancato consenso a tale offerta
che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
- l'onere della
dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell'ambito della
organizzazione aziendale, gravante sul datore di lavoro, deve essere comunque
mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sì che il lavoratore, pur non essendo
gravato dalla relativa incombenza probatoria, ha comunque un onere di deduzione
e di allegazione di tale possibilità di reimpiego. Tuttavia, la stessa
giurisprudenza di questa Corte ha rilevato (v., in particolare, Cass. n. 7046
del 2011) che, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella
generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono
utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in
quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage, in
quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono
potenzialmente licenziabili. Non è vero che la scelta del dipendente (o dei
dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa,
infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle
regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 cod.
civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche
il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).
- nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l'attività
produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966,
art. 3, se il giustificato motivo oggettivo consiste nella generica esigenza di
riduzione di personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve pur sempre improntare
l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di
correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175
cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi
anche il recesso di una di esse.
- il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è scelta riservata
all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche
dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia
effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai
profili della sua congruità ed opportunità (cfr., al riguardo: Cass. 22 agosto
2007 n. 17887);
- nella
nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche
l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più
economica gestione di essa, deciso dall'imprenditore non semplicemente per un
incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non
meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività
produttiva, tanto da imporre un'effettiva necessità di riduzione dei costi;
- non è sindacabile nei suoi profili
di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la
soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto
il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non
pretestuosità del riassetto organizzativo operato (in tal senso, v.
Cass. n. 11465 del 2012 e Cass. n. 17087 del 2012, nonché ex plurimis: Cass. 25
marzo 2011 n. 7006, Cass. 26 agosto 2011 n. 19616, che precisa come la suddetta
soppressione non possa essere meramente strumentale ad un incremento di
profitto, ma debba essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non
contingenti e debba essere collegata ad effettive ragioni di carattere
produttivo- organizzativo; v. pure Cass. 13021/2001; 2121/2004; 21282/2006);
- occorre pur sempre - ed è questo l'ambito dell'accertamento demandato al
giudice di merito - che
risulti l'effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte
dall'imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata
attraverso l'indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno
determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare
nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e
di opportunità economiche rimesse all'insindacabile scelta dell'imprenditore,
la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento
(ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità
tra tale motivo e il recesso;
- È vero che l'art. 41 Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa
economica privata, ma ciò significa che la libertà dell'imprenditore non
equivale ad arbitrio e non è sottratta a qualsiasi controllo pubblico ed in
particolare al controllo giurisdizionale. Ferma la insindacabile
discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il giudice può così
controllare il rispetto del diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma
1, art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i
contrapposti interessi costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del
lavoratore dipendente (cfr. Cass. 21710 del 2009);
- il Collegato lavoro 2010 (non applicabile alla
fattispecie ratione temporis) ha stabilito che "in tutti i
casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie relative al rapporto di
lavoro privato o pubblico privatizzato contengano clausole generali, ivi
comprese "le norme in tema di..... recesso, il controllo giudiziale è
limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento,
all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al
sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che
competono al datore di lavoro o al committente" (art. 30, comma 1, l. n.
183 del 2010), con ciò ribadendo il principio - consolidato nella
giurisprudenza di questa Corte - che non può essere sottratto al controllo
giurisdizionale l'accertamento del "presupposto di legittimità" del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ipotesi di soppressione del
posto di lavoro o in ipotesi di riduzione del personale;
- il datore di
lavoro ha l'onere di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale
esistente all'epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali
da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di
lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri
lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi
siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato),
la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da
quelle che prima svolgeva (cfr., ex plurimis, Cass. nn.
5893/1999, 12367/2003). Deve poi rilevarsi che possono considerarsi equivalenti
a quelle espletate le mansioni oggettivamente comprese nella stessa area
professionale e salariale e che, soggettivamente, si armonizzano con la
professionalità già acquisita dai lavoratore nel corso del rapporto, sì da
impedirne la dequalificazione (cfr., ex plurimis, Cass. n.
7370/1990).
- ai sensi dell'art. 2103 cod.civ., la modifica in peius delle mansioni
del lavoratore è illegittima salvo che sia stata disposta con il consenso del
dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del
lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con
l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più
favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma (cfr. Cass.
n. 6441/1988). Del pari, è stato ritenuto che non costituisce violazione
dell'art. 2103 cod.civ. un accordo sindacale che, in alternativa al
licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di
mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro
più lungo (cfr. Cass. n. 9386/1993).
- Le Sezioni Unite (sentenza n. 7755/1998) hanno affermato che, in caso di
sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della
prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di
lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e
artt. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola
ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro,
perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una
diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione
del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a
quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni
inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo
l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore;
- A quest'ultimo riguardo, le Sezioni Unite hanno affermato che l'adibizione del
lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, neppure
configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto
alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del
diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) prevalenti
su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 cod.
civ., ed anche art. 35 Cost., comma 2);