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lunedì 14 febbraio 2011

CONTRATTI A TERMINE PARZIALMENTE NULLI. QUALE RISARCIMENTO?

I commentatori, gli operatori del diritto e, direi addirittura, l'opinione pubblica non ha, a parer mio, valutato nella giusta misura l'enorme portata della vera e propria riforma sostanziale della disciplina dei contratti a termine introdotta dall'ormai noto Collegato lavoro 2010.
L'importanza della modifica è strettamente correlata alla grande diffusione che i contratti a termine hanno avuto ed hanno storicamente. Tale forma contrattuale è una di quelle ipotesi sorte nella pratica contrattuale e poi disciplinate dal legislatore. Basti pensare alla differenza con forme contrattuali "artificiose ed artificiali", penso allo job sharing per citarne uno, introdotte con norme mai assimiliate e ancor meno utilizzate dagli operatori e dalle imprese: così che mentre il il Legislatore "rincorre" i contratti a tempo determinato, i nuovi istituti contrattuali, sorti da un tentativo di fornire flessibilità al mercato del lavoro, restano appannaggio dei teorici del diritto.
La tendenza che si nota è quella di limitare quanto più possibile il ricorso ai contratti a termine, introducendo come noto una disciplina rigorosa (D.Lgs 268/2001)soprattutto in tema di rinnovo e proroghe, e quella di limitare la portata delle conseguenze dei contratti a termine nulli (recte: parzialmente nulli in ordine all'illegittima apposizione del termine).
Visto che la Giurisprudenza nulla faceva in merito, anzi, il Legislatore ha ripetutamente tentato di porre mano alla questione risarcimento.
L'ultimo tentativo operato, quello che si rinviene nel Collegato lavoro 2010, resterà a parer mio tale, vale a dire un mero tentativo.
Il punto sul quale andrà a cozzare il buon proposito di "aiutare le imprese" consisterà nella impossibilità di conciliare l'inefficacia del termine apposto (conseguente alla nullità del termine stesso) con forme di risarcimento diverse dalle retribuzioni medio tempore maturate.
Subito dopo la pubblicazione a novembre del Collegato, sono intervenute alcune pronuncie di Giudici di merito che hanno ipotizzato come la nuova forma risarcitoria prevista dal Collegato si aggiunga e non si sostituisca alla precedente disciplina. L'esatto contrario delle intenzioni del Legislatore.
Evidentemente la ratio della norma, e anche la lettera era ben diversa.
E se ne accorta la Suprema Corte, affermando (cosa più importante delle motivazioni formali) che il risarcimento previsto dalla novella sia sostitutivo delle retribuzioni medio tempore maturate.
La Corte di Cassazione, infatti, con l’ordinanza n. 2112 del 28 gennaio 2011 (che riporto al seguente link: ordinanza 2112-2011) ha ritenuto in contrasto con la Costituzione l’art. 32, c. 5 e 6, Legge 183/2010, per l’esiguità del risarcimento prevista in caso di apposizione illegittima del termine.
In effetti, il co. 5 di tale legge prevede che, nel caso in cui il contratto a tempo determinato sia convertito in contratto a tempo indeterminato per via dell’illegittima apposizione del termine, “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un’indennità “onnicomprensiva” nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.”
Del resto, il co. 6 stabilisce una diminuzione della metà di tale indennizzo nel caso in cui gli accordi nazionali, territoriali o aziendali, firmati con le organizzazioni sindacali, prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a tempo determinato.
Secondo la Corte, “il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Fino a questo momento, spesso futuro e incerto durante lo svolgimento del processo e non certo neppure quando viene emessa la sentenza di condanna, il danno aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch’esse non esattamente prevedibili”.
Invero, la soluzione indicata nell’art. 32, commi 5 e 6, non può essere assimilata all’indennità ex art. 8, L. 15 luglio 1966, n. 604, in quanto il caso regolato dall’ art. 8 non riguarda il risarcimento del danno dovuto per la mancata attuazione del rapporto lavorativo, dal momento che il diritto all’indennità esclude il diritto al mantenimento del rapporto.
Peraltro nell’ordinanza si legge che un’indennità non proporzionata rispetto all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento (prolungando il processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna).
Tutto ciò vanifica il diritto del cittadino al lavoro ex art. 4 Cost., e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che aumenta con la durata del processo, in contrasto con il principio di cui agli artt. 24 e 111, co. 2 Cost., che esige corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale.
Infine, si ravvisa, altresì, contrasto con l’art. 117, c.1, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al giusto processo e che vieta al legislatore di intromettersi nell’amministrazione della giustizia per influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse.
Per questi motivi la Corte ha dichiarato non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5 e 6, l. 4 novembre 2010 n. 183, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Vedremo cosa dirà la Corte Costituzionale.
Ritengo che dichiarerà (per la seconda volta) illegittimo l'intervento del legislatore in tema di risarcimento (ricordate il tentativo di modifica per "salvare" le Poste Italiane Spa?)
Si accettano scommesse....

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