Riporto uno stralcio di Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 aprile - 3 luglio 2013, n.
16587.
Trattandosi, ed è pacifico, di fondo di previdenza integrativa, i
versamenti erano preordinati non certo all'immediato soddisfacimento del
lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, sono stati, e
dovevano essere, accantonati e non direttamente corrisposti, per garantire il
trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, o in caso
di invalidità sopravvenuta, secondo le condizioni previste dal relativo statuto
e con divieto di distrazione ai sensi dell'art. 2117 cod. civ..
Vero è infatti che ai diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro accede,
in questi casi, un ulteriore rapporto contrattuale, che obbliga il datore ai
versamenti per garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il
conseguimento di una pensione integrativa di quella obbligatoria.
Questo ulteriore rapporto costituisce un indubbio beneficio per il lavoratore,
il quale però non altera, né modifica, né si compenetra con i diritti ed
obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ed in particolare, non incide sulle
modalità di erogazione delle indennità ricollegate alla fine del rapporto
medesimo.
4. Il beneficio, che al lavoratore apporta il rapporto di previdenza
integrativa, non è costituito dai "versamenti" effettuati dal datore,
ma dalla pensione che con essi verrà conseguita.
La contribuzione infatti, data la funzione del Fondo, per sua natura non può
entrare nel patrimonio dei lavoratori interessati, i quali possono solo
pretendere che venga versata al soggetto indicato nello Statuto. Il lavoratore
non la riceve né nel corso del rapporto, né alla sua cessazione, essendo solo
il destinatario di una aspettativa al trattamento pensionistico integrativo,
che si concreterà esclusivamente al maturarsi di certi requisiti e condizioni.
Il rapporto di previdenza integrativa ha certamente come necessario presupposto
l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, ma ha poi regole proprie, tra
le quali quella essenziale è certamente l'obbligo del versamento, a carico del
datore di una contribuzione, ed a favore non certo del lavoratore ma,
necessariamente, a favore del soggetto onerato della prestazione integrativa.
Questo obbligo non può però "rifluire" sul rapporto di lavoro ed
alterarne la fisionomia, perché non è in nesso di corrispettività diretta con
la prestazione lavorativa.
Il carattere non retributivo dei versamenti effettuati dal datore per la
previdenza integrativa è avvalorato dal regime previdenziale che li regola.
Va così definitivamente stabilito che i versamenti effettuati dal datore ai fondi di previdenza
complementare, quali che siano i lineamenti del Fondo, non sono assoggettati a
contribuzione Inps ma solo ad un contributo di solidarietà (valido a regime e
riferito anche al passato ma solo per gli anni dal 1 settembre 1985 al 30
giugno 1991), così escludendosi che questi abbiano natura retributiva.
Si badi poi che l'esonero dalla contribuzione AGO non vale solo per il periodo
successivo all'entrata in vigore del DL 103/91, ma anche anteriormente, fin
dal'inizio della istituzione di detti fondi, stante il carattere retroattivo di
questa disposizione, come espressamente confermato dall'art. 1 comma 193 della
legge 662/96 che ha sostituito l'art. 9 bis del DL 103/91, convertito in legge
166/91. Quindi i predetti contributi hanno, ed hanno sempre avuto, natura previdenziale
e non retributiva, onde è infondata la pretesa al loro inserimento nelle
indennità conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro.
Va ancora considerato che
i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non
concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi
dell'art. 3 comma 2 lettera a) d.lgs. 314/97.
La sentenza integrale a questo link
venerdì 12 luglio 2013
Le ipotesi di nullità del ricorso ex art. 414 c.p.c. - La mancata comunicazione dei motivi del licenziamento in area di tutela obbligatoria
Allego, a questo link, la sentenza Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 marzo - 10 luglio 2013, n.
17122 che riforma una sentenza della Corte di Appello di Napoli, a sua volta relativa ad una sentenza del Tribunale di Torre Annunziata (dott.ssa Palumbo).
Il ricorso è stato curato dai colleghi Fedelmassimo Ricciardelli, Gemma Trombetta e Stefania Palescandolo.
La sentenza chiarisce alcuni punti molto ricorrenti nella ordinaria casistica.
Il ricorso è stato curato dai colleghi Fedelmassimo Ricciardelli, Gemma Trombetta e Stefania Palescandolo.
La sentenza chiarisce alcuni punti molto ricorrenti nella ordinaria casistica.
1) I casi di nullità del ricorso introduttivo.
(riporto lo stralcio di interesse)
In base a consolidati e
condivisi orientamenti di questa Corte nel rito del lavoro per aversi nullità
del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione
dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e
delle ragioni di diritto che ne costituiscono il fondamento non è sufficiente
che taluno di tali elementi non venga formalmente indicato, ma è necessario che
attraverso l'esame complessivo dell'atto - che compete al giudice del merito ed
è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione - sia
impossibile l'individuazione esatta della pretesa dell'attore e il convenuto
non possa apprestare una compiuta difesa (Cass. 9 maggio 2012, n. 7097; Cass. 8
febbraio 2011, n. 3126; Cass. 23 marzo 2004, n. 5794; Cass. 25 luglio 2001, n.
10154; Cass. 1 marzo 2000, n. 2257; Cass. 1 luglio 1999, n. 6714; Cass. 29
gennaio 1999, n. 817; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2205; Cass. 27 aprile 1998, n.
4296).
In applicazione a tali indirizzi la suddetta nullità è stata esclusa, con riferimento ad ipotesi di domande aventi ad oggetto spettanze retributive:
a) allorché l'attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l'orario di lavoro, l'inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (vedi, per tutte: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126 cit.; Cass. 7 gennaio 2003, n. 41; Cass. 20 gennaio 1999, n. 817);
b) qualora l'attore abbia indicato i titoli delle spettanze retributive richieste, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, restando a tal fine irrilevante la mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell'attore medesimo di modificarne l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 24 ottobre 2008, n. 25753; Cass. 20 marzo 2004, n. 5649; Cass. 5 ottobre 2002, n. 14292);
c) se il giudice del merito abbia ritenuto che il ricorso introduttivo non consentisse di individuare gli estremi della domanda - sul rilievo che in esso non veniva indicato quale fosse in concreto il tipo di rapporto di dipendenza dedotto e non venivano precisate le relative modalità operative - avendo questa Corte, viceversa, precisato che il ricorso introduttivo, contenendo l'indicazione in cifra di vari crediti retributivi riferiti tutti a titoli tipici ed esclusivi di un rapporto di lavoro subordinato, era da considerare conforme all'art. 414 cod. proc. civ., in quanto le suddette indicazioni dovevano considerarsi sufficienti a configurare il petitum e ilthema decidendum, mentre le carenze rilevate dal giudice del merito riguardavano elementi che il ricorrente aveva l'onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154 cit.), cioè elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione si pone in contrasto a quanto prescritto dall'art. 414 n. 5 cod. proc. civ. ma non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);
d) nell'ipotesi in cui il giudice del merito, in sede di appello, possa trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316; Cass. 9 maggio 2012, n. 7097 cit.), ciò in quanto l'individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l'esame complessivo dell'atto introduttivo del giudizio, deve compiersi anche d'ufficio e anche in grado di appello (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n. 14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296);
e) allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, visto che, in tale ipotesi, l'accertamento del giudice del merito deve estendersi, con eguale profondità, al contenuto degli allegati richiamati, i quali, specialmente se di natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale, sicché il giudice del merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei, non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si sottragga al sindacato di legittimità (Cass. 19 maggio 2009, n. 11599; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 21 settembre 2004, n. 18930).
5.2.- Dall'insieme dei su riportati orientamenti si desume che il criterio generale cui sono ispirati è quello secondo cui l'atto introduttivo del giudizio deve essere interpretato - sulla base del generale principio di conservazione dell'atto al raggiungimento del proprio scopo, che governa tutte le nullità anche processuali - alla luce dei principi regolatori del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. e, in particolare, della garanzia del diritto di difesa, sancita anche dall'art. 24 Cost..
Ciò vale, a maggior ragione nel rito del lavoro i cui principi informatori (come si desume fin dalla legge istitutiva 11 agosto 1973 n 533) sono finalizzati soprattutto all'esigenza di tenere conto delle peculiari caratteristiche dei rapporti sottostanti - nei quali il lavoratore si configura come il contraente più debole, tanto più in caso di licenziamento - tanto che il rigoroso sistema di preclusioni in esso previsto in materia di produzioni probatorie trova un contemperamento - ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 421 cod. proc. civ. e dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).
In applicazione a tali indirizzi la suddetta nullità è stata esclusa, con riferimento ad ipotesi di domande aventi ad oggetto spettanze retributive:
a) allorché l'attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l'orario di lavoro, l'inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (vedi, per tutte: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126 cit.; Cass. 7 gennaio 2003, n. 41; Cass. 20 gennaio 1999, n. 817);
b) qualora l'attore abbia indicato i titoli delle spettanze retributive richieste, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, restando a tal fine irrilevante la mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell'attore medesimo di modificarne l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 24 ottobre 2008, n. 25753; Cass. 20 marzo 2004, n. 5649; Cass. 5 ottobre 2002, n. 14292);
c) se il giudice del merito abbia ritenuto che il ricorso introduttivo non consentisse di individuare gli estremi della domanda - sul rilievo che in esso non veniva indicato quale fosse in concreto il tipo di rapporto di dipendenza dedotto e non venivano precisate le relative modalità operative - avendo questa Corte, viceversa, precisato che il ricorso introduttivo, contenendo l'indicazione in cifra di vari crediti retributivi riferiti tutti a titoli tipici ed esclusivi di un rapporto di lavoro subordinato, era da considerare conforme all'art. 414 cod. proc. civ., in quanto le suddette indicazioni dovevano considerarsi sufficienti a configurare il petitum e ilthema decidendum, mentre le carenze rilevate dal giudice del merito riguardavano elementi che il ricorrente aveva l'onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154 cit.), cioè elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione si pone in contrasto a quanto prescritto dall'art. 414 n. 5 cod. proc. civ. ma non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);
d) nell'ipotesi in cui il giudice del merito, in sede di appello, possa trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316; Cass. 9 maggio 2012, n. 7097 cit.), ciò in quanto l'individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l'esame complessivo dell'atto introduttivo del giudizio, deve compiersi anche d'ufficio e anche in grado di appello (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n. 14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296);
e) allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, visto che, in tale ipotesi, l'accertamento del giudice del merito deve estendersi, con eguale profondità, al contenuto degli allegati richiamati, i quali, specialmente se di natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale, sicché il giudice del merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei, non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si sottragga al sindacato di legittimità (Cass. 19 maggio 2009, n. 11599; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 21 settembre 2004, n. 18930).
5.2.- Dall'insieme dei su riportati orientamenti si desume che il criterio generale cui sono ispirati è quello secondo cui l'atto introduttivo del giudizio deve essere interpretato - sulla base del generale principio di conservazione dell'atto al raggiungimento del proprio scopo, che governa tutte le nullità anche processuali - alla luce dei principi regolatori del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. e, in particolare, della garanzia del diritto di difesa, sancita anche dall'art. 24 Cost..
Ciò vale, a maggior ragione nel rito del lavoro i cui principi informatori (come si desume fin dalla legge istitutiva 11 agosto 1973 n 533) sono finalizzati soprattutto all'esigenza di tenere conto delle peculiari caratteristiche dei rapporti sottostanti - nei quali il lavoratore si configura come il contraente più debole, tanto più in caso di licenziamento - tanto che il rigoroso sistema di preclusioni in esso previsto in materia di produzioni probatorie trova un contemperamento - ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 421 cod. proc. civ. e dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).
2) La mancata comunicazione dei motivi del licenziamento in area di tutela obbligatoria: la disciplina risarcitoria applicabile.
La questione è quella delle conseguenze del licenziamento inefficace -per
mancata comunicazione dei motivi, richiesta dal lavoratore - nei rapporti
assoggettati alla stabilità obbligatoria.
Tale questione è stata oggetto di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, delineatosi per effetto di Cass. 23 dicembre 1996, n. 11497, che discostandosi dalla giurisprudenza prevalente, aveva ritenuto applicabile all'ipotesi di mancata tempestiva comunicazione dei motivi di recesso anziché la disciplina della nullità del licenziamento quella sui licenziamenti individuali, con conseguente obbligo di riassunzione o, in alternativa, corresponsione dell'indennità a ristoro del danno subito, come previsto (e nella misura stabilita) dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 - in sede di composizione di tale contrasto - ha affermato il principio secondo cui "nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 legge n. 108 del 1990, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 legge n. 108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali inficianti l'atto e, in particolare, senza che possa ritenersi applicabile al vizio della mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604/66 cit. per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica".
Tale principio è rimasto fermo nella giurisprudenza di questa Corte attraverso molteplici applicazioni, tutte basate sulla premessa secondo cui nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore.
È stato così affermato che nella suindicata situazione:
a) non si possono fare distinzioni tra i diversi vizi formali, ritenendo applicabile a quello derivante dalla mancata comunicazione dei motivi del recesso la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 8, legge n. 604 del 1996; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, ma solo il diritto al risarcimento del danno, che va determinato secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni ed eventualmente quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso alla data della pronuncia che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento (Cass. 18 agosto 2003, n. 12079);
b) non è applicabile la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604 del 1966 per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ma, nel caso di difetto di attuazione della prestazione lavorativa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, normalmente quantificabile con riferimento alle retribuzioni perse. Per la determinazione di tale danno deve essere valutata sia l'incidenza di un eventuale successivo licenziamento formale idoneo a produrre ex nunc effetti risolutivi del rapporto, sia la tempestiva deduzione dell’aliunde perceptum. Pertanto il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento delle "retribuzioni medio tempore non corrisposte", senza attribuire rilevanza alla successiva intimazione formale del licenziamento e senza esaminare la deduzione in appello dell’aliunde perceptum, con richiesta di prova in riferimento al periodo successivo al giudizio di primo grado (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946);
c) non è necessaria - per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento - la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l'offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative (Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392);
d) la conseguenza del fatto che il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966 e succ. mod. non produce effetti sulla continuità del rapporto - che deve pertanto considerarsi mai interrotto - consiste, per i rapporti non rientranti nell'area della tutela reale, nel riconoscimento al lavoratore del diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell'adempimento dell'obbligazione retributiva che siano messe a disposizione le operae e, cioè, che vi sia l'offerta, della prestazione lavorativa, mediante formale costituzione in mora o, comunque, con altra modalità (Cass. 30 agosto 2010, n. 18844);
e) il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace, per inosservanza dell'onere della forma scritta, imposto dall'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale od obbligatorio), giacché la sanzione ivi prevista non opera soltanto nei confronti dei lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), sicché la radicale inefficacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando applicazione l'ordinario regime risarcitorio, con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento datoriale (Cass. 10 settembre 2012, n. 15106; Cass. 1 agosto 2007, n. 16955).
6.2.- La Corte partenopea, pur muovendo dall'esatta duplice premessa che il licenziamento del V. deve considerarsi inefficace - per mancata risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 - e che al rapporto di lavoro in oggetto va applicata la tutela obbligatoria, tuttavia nel determinare le conseguenze risarcitorie di tale licenziamento si è discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e su riportati.
Dalla sentenza risulta, infatti, che la Corte territoriale ha a tal fine, erroneamente, dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell'inadempimento contrattuale, facendo, in particolare, riferimento al generale regime della nullità del contratto a prestazioni corrispettive richiamato da Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 e dalla successiva giurisprudenza ad essa conforme.
Come rilevato dal ricorrente, se la Corte d'appello avesse correttamente applicato la suindicata disciplina avrebbe dovuto affermare l'obbligo della società CA.VER di corrispondere al lavoratore - trattandosi di rapporto di lavoro ancora in atto - le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento, non potendo nutrirsi dubbi sulla persistenza del vincolo contrattuale (desumibile dall'offerta della prestazione lavorativa da parte dell'interessato) e sull'imputabilità dell'inadempimento alla datrice di lavoro, il cui comportamento avrebbe dovuto essere valutato anche tenendo conto dalla intimazione al ricorrente di un nuovo licenziamento, dopo la sentenza di primo grado del presente giudizio, ancora una volta effettuata in totale violazione dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966.
Tale questione è stata oggetto di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, delineatosi per effetto di Cass. 23 dicembre 1996, n. 11497, che discostandosi dalla giurisprudenza prevalente, aveva ritenuto applicabile all'ipotesi di mancata tempestiva comunicazione dei motivi di recesso anziché la disciplina della nullità del licenziamento quella sui licenziamenti individuali, con conseguente obbligo di riassunzione o, in alternativa, corresponsione dell'indennità a ristoro del danno subito, come previsto (e nella misura stabilita) dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 - in sede di composizione di tale contrasto - ha affermato il principio secondo cui "nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 legge n. 108 del 1990, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 legge n. 108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali inficianti l'atto e, in particolare, senza che possa ritenersi applicabile al vizio della mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604/66 cit. per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica".
Tale principio è rimasto fermo nella giurisprudenza di questa Corte attraverso molteplici applicazioni, tutte basate sulla premessa secondo cui nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore.
È stato così affermato che nella suindicata situazione:
a) non si possono fare distinzioni tra i diversi vizi formali, ritenendo applicabile a quello derivante dalla mancata comunicazione dei motivi del recesso la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 8, legge n. 604 del 1996; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l'inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, ma solo il diritto al risarcimento del danno, che va determinato secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni ed eventualmente quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso alla data della pronuncia che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento (Cass. 18 agosto 2003, n. 12079);
b) non è applicabile la disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 8 legge n. 604 del 1966 per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ma, nel caso di difetto di attuazione della prestazione lavorativa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, normalmente quantificabile con riferimento alle retribuzioni perse. Per la determinazione di tale danno deve essere valutata sia l'incidenza di un eventuale successivo licenziamento formale idoneo a produrre ex nunc effetti risolutivi del rapporto, sia la tempestiva deduzione dell’aliunde perceptum. Pertanto il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento delle "retribuzioni medio tempore non corrisposte", senza attribuire rilevanza alla successiva intimazione formale del licenziamento e senza esaminare la deduzione in appello dell’aliunde perceptum, con richiesta di prova in riferimento al periodo successivo al giudizio di primo grado (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946);
c) non è necessaria - per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento - la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l'offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative (Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392);
d) la conseguenza del fatto che il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della legge n. 604 del 1966 e succ. mod. non produce effetti sulla continuità del rapporto - che deve pertanto considerarsi mai interrotto - consiste, per i rapporti non rientranti nell'area della tutela reale, nel riconoscimento al lavoratore del diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell'adempimento dell'obbligazione retributiva che siano messe a disposizione le operae e, cioè, che vi sia l'offerta, della prestazione lavorativa, mediante formale costituzione in mora o, comunque, con altra modalità (Cass. 30 agosto 2010, n. 18844);
e) il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace, per inosservanza dell'onere della forma scritta, imposto dall'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale od obbligatorio), giacché la sanzione ivi prevista non opera soltanto nei confronti dei lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), sicché la radicale inefficacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando applicazione l'ordinario regime risarcitorio, con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento datoriale (Cass. 10 settembre 2012, n. 15106; Cass. 1 agosto 2007, n. 16955).
6.2.- La Corte partenopea, pur muovendo dall'esatta duplice premessa che il licenziamento del V. deve considerarsi inefficace - per mancata risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 - e che al rapporto di lavoro in oggetto va applicata la tutela obbligatoria, tuttavia nel determinare le conseguenze risarcitorie di tale licenziamento si è discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e su riportati.
Dalla sentenza risulta, infatti, che la Corte territoriale ha a tal fine, erroneamente, dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell'inadempimento contrattuale, facendo, in particolare, riferimento al generale regime della nullità del contratto a prestazioni corrispettive richiamato da Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 e dalla successiva giurisprudenza ad essa conforme.
Come rilevato dal ricorrente, se la Corte d'appello avesse correttamente applicato la suindicata disciplina avrebbe dovuto affermare l'obbligo della società CA.VER di corrispondere al lavoratore - trattandosi di rapporto di lavoro ancora in atto - le retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento, non potendo nutrirsi dubbi sulla persistenza del vincolo contrattuale (desumibile dall'offerta della prestazione lavorativa da parte dell'interessato) e sull'imputabilità dell'inadempimento alla datrice di lavoro, il cui comportamento avrebbe dovuto essere valutato anche tenendo conto dalla intimazione al ricorrente di un nuovo licenziamento, dopo la sentenza di primo grado del presente giudizio, ancora una volta effettuata in totale violazione dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966.
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