Tribunale Caltanissetta, sez. lavoro, sentenza 11.10.2010
La pronuncia 11 ottobre 2010 del Tribunale di Caltanissetta si occupa di importanti profili connessi al licenziamento derivante da ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, soffermandosi, in particolare, su tre aspetti:
1. la necessità del nesso di causalità tra il progettato ridimensionamento aziendale ed i singoli provvedimenti di recesso datoriale attuativi del ridimensionamento, nonché l’ampiezza dei poteri del Giudice nella valutazione di detto nesso di causalità;
2. i criteri di valutazione circa la sussistenza del trasferimento d’azienda;
3. l’ammissibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 per la tutela dei crediti pecuniari di lavoro.
1-a) Sul nesso di causalità tra il ridimensionamento del personale aziendale ed i singoli licenziamenti
Circa la necessità della sussistenza del nesso di causalità tra il progetto di ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di licenziamento attuativi del progetto, il Tribunale di Caltanissetta, nel solco interpretativo tracciato dalla recente giurisprudenza di legittimità, afferma due importanti principi, l’uno relativo alla sussistenza del nesso, l’altro concernente l’allocazione dell’onere della prova in ordine alla dimostrazione dello stesso.
1) Sul primo versante, il Tribunale statuisce l’imprescindibilità del “nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso”;
2) Circa la ripartizione dell’onus probandi in ordine alla sussistenza del nesso, si afferma che sul datore di lavoro grava l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la provadella loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni; per converso, incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata.
Ne deriva che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è ravvisabile in capo al lavoratore.
In altre parole, nella pronuncia si pone l’accento sulla necessità della formulazione, da parte del datore di lavoro, di ben definiti criteri causali attuativi del ridimensionamento, tali da porre il lavoratore nelle condizioni di individuarne eventuali illegittimità.
Ove ciò non avvenga, risulta compromessa in radice la tutela della posizione del lavoratore, impossibilitato ad individuare e contestare l’eventuale difformità tra i criteri programmatici dettati e la scelta attuativa dei singoli licenziamenti.
1-b) Sull’ampiezza dei poteri del Giudice nella valutazione del nesso causale tra progetto di ridimensionamento e singoli licenziamenti
Una volta affermata la necessità della sussistenza del nesso causale nei termini sopra esposti, la sentenza delinea i confini del potere giurisdizionale di valutazione e sindacato in ordine alla scelta imprenditoriale del ridimensionamento aziendale, stabilendo che il Giudice “non può sindacare (nel merito) le scelte imprenditoriali nel dimensionare il livello occupazionale in riferimento alla programmata ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale”, ma “deve comunque accertare la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso”.
Nessun potere di sindacare, quindi, la scelta imprenditoriale del progetto di ridimensionamento, ma il dovere di valutare il nesso causale tra il progetto di ridimensionamento ed i licenziamenti.
A sostegno dell’assunto sull’ampiezza dei poteri del Giudice, il Tribunale sottolinea che a seguito dell’entrata in vigore della legge 23 luglio 1991, n. 223 in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, gli spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa hanno subito una rilevante erosione, non potendo più riguardare gli specifici motivi della riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza effettuare contestazioni sull’elusione dei doveri di informazione e consultazione con i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di ‘effettive’ esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva.
Ancora, se il Giudice non ha il potere di censurare la scelta imprenditoriale del ridimensionamento, ha tuttavia il potere di valutare la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sotto il profilo della non discriminazione e della razionalità.
Difatti, alla stregua di quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 94/268, la determinazione di tali criteri, elaborata congiuntamente da datori di lavoro e organizzazioni sindacali, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione sanzionato dall’art. 15 l. 300/70, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri della obbiettività e della generalità e devono essere coerenti col fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori.
Nel caso di specie, il criterio di scelta dei lavoratori da licenziare trasfuso negli accordi sindacali, rappresentato unicamente dalla alternativa tra la rinunzia alle pregresse spettanze lavorative e la conservazione del posto di lavoro, è stato ritenuto contrario ai principi di non discriminazione e razionalità, con conseguente illegittimità del licenziamento.
2) Sugli indici sintomatici del trasferimento d’azienda
Con l’arresto giurisprudenziale in commento il Tribunale di Caltanissetta fornisce anche una chiara disamina sulla nozione di trasferimento d’azienda e dei relativi presupposti, interpretando il correlativo dato normativo codicistico.
L’art. 2112 comma quinto del Codice civile dispone al riguardo che “si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.
Secondo la ricostruzione operata dal Tribunale il requisito della conservazione dell’identità dell’attività economica precedentemente esercitata dal cedente impone che l’attività organizzata “conservi le caratteristiche funzionali ed organizzative durante il trasferimento”.
Inoltre, si afferma che, quanto al titolo del trasferimento dal cedente al cessionario, assume rilievo “non il mezzo giuridico concretamente impiegato, quanto il fatto che il nuovo imprenditore diventi titolare del complesso organizzato e funzionale dei beni”.
Nel caso di specie gli elementi rappresentati dal trasferimento alla società cessionariadei lavoratori e dei mezzi organizzati all’attività d’impresa consentono di per sé di configurare l’operazione complessivamente analizzata in termini ditrasferimento d’azienda, a prescindere dalle singole tipologie negoziali adottate dai contraenti ai fini della cessione dell’attività.
3) Sull’ammissibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 per la tutela dei crediti pecuniari di lavoro
Circa l’impiegabilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. quale mezzo di tutela dei crediti pecuniari di lavoro, il Tribunale nisseno, richiamando consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, afferma: “il provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. – benché finalizzato a tutelare diritti concernenti un bene infungibile (quale non è il denaro) - è ammissibile a tutela dei crediti (pecuniari) di lavoro (nella misura in cui i relativi proventi siano necessari ad assicurare il bene della ‘esistenza libera e dignitosa’ presidiato dall’art. 36 Cost.), potendo derivare dal loro ritardato soddisfacimento un pregiudizio non riparabile altrimenti; nell’ambito del processo del lavoro, il ricorso al provvedimento d’urgenza ha senso in quelle sole ipotesi nelle quali il decorso anche di un breve arco temporale esporrebbe il lavoratore ad un’irrimediabile lesione della sua posizione sostanziale” (Cass. Civ., sez. Lav., n. 8373/97).
Ancora, circa la sussistenza del requisito del periculum in mora giustificativo nella richiesta in via d’urgenza di reintegrazione del posto di lavoro, si afferma: “nell’ipotesi di licenziamento del lavoratore non possono essere ravvisate deroghe alla disciplina prevista dall’art. 700 c.p.c. e, d’altra parte, il mero danno economico costituito dalla perdita della retribuzione, conseguente a licenziamento, non concretizza di per sè il requisito del ‘periculum in mora’ necessario per ottenere in via d’urgenza la reintegrazione nel posto di lavoro, trattandosi di danno sempre risarcibile. Infatti per un diritto di credito è ammissibile la tutela in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ove a questo siano indissolubilmente ed immediatamente correlate situazioni giuridiche soggettive non patrimoniali - di cui il dipendente attore deve fornire prova - quali il diritto all’integrità fisica o alla salute, che potrebbero essere pregiudicate definitivamente dal ritardo nella soddisfazione del diritto di credito” (conf. Tribunale di Palmi, 23 luglio 2002).
In altre parole la sentenza in esame riconduce l’ammissibilità del provvedimento d’urgenza di reintegrazione nel posto di lavoro al periculum in mora rappresentato dal pregiudizio definitivo ed irreparabile alla conduzione di un esistenza libera e dignitosa che determini delle ricadute irreversibili su beni di rilevanza costituzionale, tra i quali sono da annoverarsi senza dubbio l’integrità fisica e la salute del lavoratore e dei componenti della sua famiglia.
(da Altalex, 27 aprile 2011. Nota di Filippo Di Camillo.)
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