Efficacia dei contratti collettivi, non serve una
(nuova) legge
di Armando Tursi - Professore
ordinario di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Milano
E’ ancora di grande
attualità il dibattito sull’opportunità di una legge sulla rappresentatività
sindacale ai fini dell’efficacia (generale) dei contratti collettivi. Ma ce n’è
davvero bisogno? A ben guardare essa non serve per i contratti nazionali “di
categoria” perché se peggiorativi possono essere teoricamente rifiutati dai lavoratori.
E non serve per i contratti aziendali, in quanto spesso ci si dimentica che una
norma legale sulla loro efficacia esiste già ed è la legge sui “contratti di
prossimità”, norma sostanzialmente ignorata dalle parti sociali. Per quale
ragione?
Croce e delizia del diritto sindacale italiano da più di 70 anni, il
dibattito sull’opportunità di una legge sindacale, e in particolare sulla rappresentatività sindacale ai fini dell’efficacia
(generale) dei contratti collettivi, è tornato di recente alla ribalta.
Da più parti si auspica una traduzione in legge degli accordi
interconfederali stipulati dal 2011 in poi, e confluiti nel cd. “testo unico
sulla rappresentanza” del 10 gennaio 2014.
A noi pare che non ci sia nessun bisogno di una legge siffatta.
Essa non serve per i contratti nazionali “di
categoria”: questi, ove peggiorativi (o percepiti come tali dai
lavoratori) rispetto al contratto in vigore, possono, sì, essere teoricamente
rifiutati dai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti (sempre che nella
lettera di assunzione non sia inserita, come quasi sempre accade, la cd.
“clausola di rinvio” al CCNL vigente); ma allora diventerebbero inapplicabili
tutte le clausole del CCNL rifiutato, comprese quelle eventualmente
migliorative: il che spiega come mai non si registrino, in pratica, casi reali
di rifiuto del CCNL da parte dei lavoratori non iscritti, ponendosi sempre,
invece, la questione sul diverso piano della (presunta) condotta antisindacale.
Ove, poi, si tratti di contratti attuativi di deroghe
peggiorative consentite dalla legge (cdd. “contratti in deroga alla
legge”), allora, già sulla base del diritto vigente, si potrebbe sostenere la
loro efficacia generale, in quanto contratti “delegati” dalla stessa legge.
Per quanto riguarda i contratti aziendali,
poi, spesso ci si dimentica che una norma legale sulla loro efficacia esiste
già: è l’art. 8 della legge n. 148/2011, sui “contratti di prossimità”.
Tali contratti esplicano la loro efficacia “nei confronti di tutti i
lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritti sulla base di un
criterio maggioritario”: “criterio maggioritario” che, anche in considerazione
dell’esplicito rinvio operato dalla norma all’”accordo interconfederale del 28
giugno 2011”, ben può essere rinvenuto proprio in detto accordo (ora inglobato
nel “Testo unico sulla rappresentanza” del 2014), ossia nella circostanza che
l’accordo sia siglato dalla maggioranza dei componenti della RSU, ovvero dalle
RSA che rappresentino, complessivamente, la maggioranza dei lavoratori iscritti
ai sindacati in azienda.
Ove poi tali contratti aziendali siano stipulati da “associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o
territoriale”, oppure “dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda”,
e inoltre perseguano le finalità previste dalla legge (es.: la “maggiore
occupazione”, o gli “incrementi di competitività”), e investano determinate
materie anch’esse previste dalla legge (per es.: le mansioni, i contratti
“atipici”, le conseguenze del licenziamento illegittimo), essi (oltre ad avere
efficacia per tutti i lavoratori interessati) “operano anche in deroga a norme
inderogabili di legge e contratto nazionale”.
In sostanza, la legge del 2011 - ma non tutti se ne sono accorti - regola
sia l’efficacia “soggettiva”che
quella “derogatoria” dei contratti collettivi aziendali.
La norma tuttavia - com’è noto - è stata sostanzialmente ignorata dalle
parti sociali, che addirittura l’hanno sconfessata in uno specifico impegno di
“non applicazione”.
Tre sono le ragioni di tale atteggiamento.
La prima: l’eccessiva ampiezza delle materie
regolabili dai contratti di prossimità determinerebbe, di fatto, la
conseguenza della derogabilità in sede aziendale della quasi totalità, o
comunque di una buona parte, delle norme lavoristiche, che pure sono, com’è
noto, tipicamente “inderogabili”.
La seconda: la norma afferma la prevalenza del contratto
aziendale su quello nazionale, così di fatto rovesciando la
“naturale” gerarchia delle fonti collettive.
La terza: la norma violerebbe l’art. 39 della Costituzione, perché
attribuirebbe efficacia generale ai contratti
collettivi aziendali, con una modalità diversa da quella esclusivamente
contemplata dallo stesso art. 39.
Si tratta di argomenti controvertibili e non unanimemente condivisi dalla
dottrina.
Ma quel che appare più interessante, di questa vicenda, è una duplice
considerazione.
In primo luogo, l’art. 8 della legge n. 148/2011 altro non è che il
coronamento di un processo di devoluzione di poteri normativi (anche
derogatori) alla contrattazione collettiva da parte della legge, realizzato con
finalità di flessibilizzazione del diritto del lavoro, a partire almeno dalla
metà degli anni ’70 del secolo scorso; un processo che ancora oggi, dopo la
legge n. 148/2011, prosegue: da ultimo, con il cd. “Jobs Act” (v. l’art. 51 del
d. lgs. n. 81/2015).
Si tratta di una tecnica di flessibilizzazione del diritto
del lavoro, che muove dai contenuti alle fonti regolative: la legge,
anziché modificare i contenuti delle norme in direzione meno protettiva, delega
tale compito alla contrattazione collettiva, rendendo la norma legale
derogabile da parte di quest’ultima (ma non da parte della contrattazione
individuale: sicché essa resta pur sempre formalmente “inderogabile”).
Con il Jobs Act, tale tecnica si combina con la flessibilità direttamente
somministrata per legge (v. il contratto “a tutele crescenti”, nonché la nuova
disciplina delle mansioni e dei controlli “a distanza” sui lavoratori).
La seconda considerazione è che, a ben vedere, l’art. 8, finché non verrà
abrogato (e il Jobs Act si è guardato bene dal farlo), non potrà non esplicare
i suoi effetti, pur in presenza di una apparente disapplicazione.
E ciò, non solo perché si registrano sovente casi di accordi aziendali che,
pur non menzionando né l’art. 8 né la denominazione di “contratti di
prossimità”, di fatto sono stipulati nel rispetto delle condizioni
soggettive e oggettive previste dall’art. 8, e derogano a norme di
legge disciplinanti le materie ivi contemplate (arguta dottrina ha detto, a
tale proposito, che il contratto di prossimità “si fa ma non si dice”); ma
anche perché, ove vengano portati all’attenzione del giudice del lavoro accordi
aziendali, anteriori o successivi all’entrata in vigore della legge n. 148/2011,
che deroghino a norme imperative, il Giudice, ove ricorrano di fatto le
condizioni di cui all’art. 8, dovrà considerarli validi e non nulli.
Per non dire, poi, della pratica irrilevanza della previsione per cui i
contratti di prossimità possono derogare anche ai contratti nazionali di
lavoro: la dottrina che si scandalizza per questo, dovrebbe ricordare che in
giurisprudenza è pacifico il principio per cui non esiste una gerarchia tra le fonti collettive, e pertanto il contratto
aziendale non rispettoso delle prescrizioni del contratto nazionale, è comunque
valido ed efficace sul piano dei rapporti intersoggettivi.