Pagine

sabato 21 dicembre 2013

L'Aspi (indennità di disoccupazione) compete anche in caso di licenziamento per giusta causa

Risp. Interp. Min. Lav. n. 29 del 23 ottobre 2013

Il Ministero del Lavoro, con la Risposta ad Interpello n. 29/2013, ha specificato che il licenziamento disciplinare costituisce una ipotesi di disoccupazione “involontaria” sicché, anche in tale ipotesi, spetta L’ASpI. Come è noto, la riforma Fornero, ha introdotto, con l’art. 2 della L. n. 92/2012, l'Assicurazione Sociale per l'Impiego (ASpI) che ha la finalità di fornire una indennità di disoccupazione ai lavoratori colpiti da disoccupazione involontaria. 
Dal tenore letterale della predetta normativa, ad avviso del Ministero, può evincersi che le cause di esclusione dall’ASpI sono tassative e riguardano:
i) i casi di dimissioni (con l’eccezione: delle dimissioni per giusta causa e delle dimissioni intervenute durante il periodo di maternità tutelato dalla legge) e
ii) i casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Ciò premesso, si legge nella risposta ad interpello, “non sembra potersi escludere” che l’indennità de qua sia corrisposta anche in ipotesi di licenziamento disciplinare, così come del resto ha inteso chiarire l’Istituto previdenziale il quale è intervenuto con numerose circolari (cfr. INPS circolari. n.140/2012, 142/2012, 44/2013) per disciplinare espressamente le ipotesi di esclusione della corresponsione dell’indennità in parola senza trattare l’ipotesi del licenziamento disciplinare.
L’Istituto precisa inoltre, che il licenziamento disciplinare può essere considerato già un’adeguata risposta dell’ordinamento al comportamento del lavoratore e negare la corresponsione della ASpI costituirebbe un’ulteriore reazione sanzionatoria nei suoi confronti. Sotto diverso profilo, osserva ancora il Ministero, in primo luogo il licenziamento disciplinare non può essere qualificato come disoccupazione “volontaria”. Inoltre, considerato che il Giudice potrebbe ritenere illegittimo il provvedimento, in tale caso potrebbe risultare iniquo negare la protezione assicurata dall’ASpI.
Pertanto, al riconoscimento del trattamento ASpI a favore del lavoratore segue l’obbligo per il datore di lavoro di versare il contributo previsto dall’art. 2, comma 31 della L. 92/2012 nell'ipotesi di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.


venerdì 20 dicembre 2013

Somministrazione di manodopera e contratti a termine


CASS. SEZIONE LAVORO
9 SETTEMBRE 2013, N. 20598


In tema di somministrazione di manodopera, la legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una situazione riconducibile alla ragione indicata nel contratto stesso.

Tra i precedenti conformi in tema di somministrazione di manodopera si veda Cassazione 6933/2012 per la quale il controllo giudiziario sulle ragioni che la consentono - che è limitato all’accertamento della loro esistenza, e non può estendersi al sindacato sulle valutazioni tecniche ed organizzative dell’utilizzatore implica la verifica dell’effettività dell’esigenza di assunzione indicata nel contratto di somministrazione stipulato tra la somministratrice e l’utilizzatrice, restando irrilevante la diversa indicazione nel contratto di assunzione. Ne consegue che, ove la somministrazione sia fatta con riferimento ad una determinata sede di lavoro per sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto, l’assegnazione del lavoratore ad altra sede implica la violazione delle condizioni legali della somministrazione e la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore della prestazione, restando irrilevante che nel contratto di assunzione sia stata indicata la sede di effettiva utilizzazione. 

mercoledì 18 dicembre 2013

Licenziamento ad nutum per superamento dell'età pensionabile - Importanti precisazioni

CORTE DI APPELLO TORINO - Sentenza 24 ottobre 2013

L’art. 24 comma 3 DL 201/2011 stabilisce che i lavoratori che abbiano raggiunto entro il 31.12.2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti (ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità) dalla previgente normativa conseguano il diritto alla prestazione secondo tale normativa.
La norma prosegue stabilendo che, a decorrere dall’1.1.2012, le pensioni di vecchiaia, vecchiaia anticipata e anzianità sono sostituite dalla pensione di vecchiaia e dalla pensione anticipata, prestazioni da conseguirsi esclusivamente sulla base dei nuovi requisiti previsti dai commi 6, 7, 10 e 11 DL citato.
Il testo del comma 4 del medesimo articolo è il seguente: "Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria.. .e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’art. 2, comma 26 della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato... dal l’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settantanni...Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità.".
La portata letterale della disposizione (in particolare il riferimento ai "requisiti minimi previsti dai successivi commi") è tale da rendere del tutto evidente che la stessa (nella sua integralità e, dunque, anche nella parte che prevede incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa e stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferisce unicamente ai lavoratori che raggiungono l’età pensionabile dopo il 31.12.2011 secondo i nuovi requisiti (pacifico essendo che anche il lavoratore privato che già abbia raggiunto i requisiti per la pensione anticipata ma non ancora quelli per la pensione di vecchiaia gode della medesima tutela e ciò a differenza del lavoratore pubblico, che può essere licenziato ad nutum già quando abbia raggiunto l’anzianità contributiva massima, secondo quanto previsto dall’art. 72 comma 11 DL 12/2008).
E’ errata l’affermazione del primo giudice secondo la quale "il co. 3, primo periodo e il co. 14 dell’art. 24 d.l. cit. limitano la deroga all’applicabilità della riforma pensionistica alle sole disposizioni sul diritto all’accesso e sulle decorrenze del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità non anche alle disposizioni relative al proseguimento incentivato dell’attività lavorativa di cui al co. 4 (e alla connessa "stabilizzazione" del regime di tutela reale ex art. 18 st.lav.) fino al compimento del settantesimo anno di età", così come è errata l’affermazione secondo la quale "un utile indizio ermeneutico può essere ricavato dal co. 1 lett.b) dell’art. 24 d.l. cit., ove viene introdotto un principio generale di incentivazione alla prosecuzione dell’attività lavorativa valevole per tutti i lavoratori senza distinzioni di sorta a seconda della maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia".
Tali disposizioni, infatti, non consentono per nulla di estendere ai lavoratori che abbiano maturato i requisiti per il diritto a pensione entro il 31.12.2011 secondo la vecchia normativa nuove disposizioni attinenti profili diversi da requisiti e decorrenze quando tali disposizioni (come quelle sull’incentivazione al proseguimento dell’attività lavorativa e sulla stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferiscano, come si è sopra evidenziato, espressamente ed esclusivamente ai lavoratori che conseguono il diritto a pensione dopo il 31.12.2011 secondo la nuova normativa.

Certo non è vietato che un lavoratore che abbia raggiunto i requisiti pensionistici entro il 31.12.2011 possa scegliere di proseguire l’attività lavorativa, ma l’effettiva operatività di tale scelta è subordinata all’esistenza di una concorde e durevole volontà di parte datoriale che, se di diverso avviso, può legittimamente intimare un licenziamento ad nutum.

Non vi è discriminazione nel diverso trattamento risarcitorio delle ipotesi di nullità dei contratti a termine

sentenza della Corte di Giustizia UE, causa C-361/12, del 12 dicembre 2013.

Il ricorrente lamentava che il lavoratore illecitamente assunto a tempo determinato fruirebbe di una tutela meno favorevole rispetto a quella prevista in base ai principi del diritto civile, nonché di quella riservata al lavoratore assunto a tempo indeterminato licenziato illecitamente il quale, nei casi previsti dall’art. 18 l. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), ha diritto al versamento di un’indennità commisurata al lasso di tempo trascorso dal giorno del licenziamento illecito sino a quello dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.
La clausola 4 (Principio di non discriminazione), al punto 1, della direttiva 1999/70/CE (relativa all’accordo sul lavoro a tempo determinato), prevede che «per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive».
Secondo i giudici di Strasburgo, come risulta dalla formulazione letterale stessa della clausola 4, punto 1, in esame, la parità di trattamento non si applica fra lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato, non comparabili.
La Corte di Giustizia, di conseguenza, ha affermato che per valutare se l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine a un contratto di lavoro a tempo determinato e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato debba essere determinata in modo identico, occorre innanzitutto verificare se sia possibile ritenere che gli interessati si trovino in situazioni comparabili.
Constatato, nel caso in esame, che una di queste indennità riguarda lavoratori il cui contratto è stato stipulato in modo irregolare, mentre la seconda riguarda lavoratori licenziati, per i giudici europei ne consegue che la parità di trattamento fra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato comparabili non trova applicazione in una controversia come quella oggetto del procedimento principale.

Risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro - I criteri ribaditi dalla Cassazione

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 ottobre – 17 dicembre 2013, n. 28117
Presidente Stile – Relatore Marotta

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un umico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17 dicembre 2004, n. 23554, nonché più di recente Cass. 18 novembre 2010, n. 23319, 11 marzo 2011, n. 5887, 4 agosto 2011, n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 cod. civ., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione dei rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)".
Orbene nella fattispecie la Corte di appello, dopo aver richiamato tale ultimo indirizzo "oggettivo" (ed in specie Cass. n. 13891/2004 cit.), ha affermato che "il giudice è tenuto ad attribuire valore di dichiarazione negoziale a comportamenti sociali valutati in modo tipico, per ciò che essi socialmente esprimono", in tal modo disattendendo l’indirizzo prevalente ormai consolidato e qui ulteriormente ribadito.
In particolare la Corte territoriale in sostanza ha fondato la propria decisione soltanto sulla, pur prolungata, inerzia del lavoratore, sulla mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, nonché sull’avvenuta restituzione del libretto di lavoro e sull’accettazione senza riserva del t.f.r. (circostanze, a ben guardare, tutte incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore, sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati).
In tal modo la Corte di merito ha disatteso l’indirizzo consolidato qui ribadito, valutando le circostanze richiamate sul piano meramente oggettivo, anziché sotto il profilo della chiara e certa manifestazione tacita della volontà risolutiva di ogni rapporto.
...
Deve, dunque, essere ribadito che l’eventuale risoluzione del rapporto per mutuo consenso va accertata con particolare rigore e, ove non contenuta in un atto formale, deve risultare da un comportamento inequivoco che evidenzi il completo disinteresse di entrambe le parti alla prosecuzione del rapporto stesso, essendo a tal fine prive di univoco valore sintomatico in tal senso, oltre all’illegittima apposizione del termine, anche la mancanza, pure se per un lungo periodo, di attività lavorativa, nonché la restituzione del libretto di lavoro al lavoratore e le stesse circostanze del versamento e dell’accettazione senza riserva, da parte del medesimo, di competenze economiche.

Pubblico impiego, crediti retributivi e prescrizione obbligo contributivo

La condanna del datore di lavoro alla regolarizzazione della posizione assicurativa di lavoratori dipendenti, aventi diritto a differenze retributive assoggettabili a contribuzione a favore dell'I.N.P.S., deve essere limitata al pagamento dei contributi per i quali, secondo le speciali disposizioni di legge che li regolano, non sia intervenuta la prescrizione.