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martedì 29 ottobre 2013

COSTITUZIONE RSA IN AZIENDA - I CONFINI RIMARCATI DALLA CASSAZIONE

(Cassazione civ., sez. lavoro, Sentenza 25.9.2013 n. 21910)

La L. 20 maggio 1970 n. 300 devolveva i diritti sindacali posti nel titolo 3^ della stessa legge alle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell'ambito delle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (art. 19 lett. a), nonchè alle associazioni sindacali non affiliate alle suddette confederazioni ma risultanti firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva. 
La norma risultava fondata su un criterio selettivo della rappresentanza sindacale perchè era volta a riconoscere ampi poteri alle organizzazioni dei lavoratori storicamente collaudate, quali quelle espresse dal sindacalismo confederale, e ad estendere detti poteri anche a quelle associazioni, per le quali la stipula di contratti "nazionali o provinciali" dimostrava nei fatti una non marginale capacità di consenso in non ristretti ambiti territoriali. 
Come è noto, su tale normativa, cui era stato riconosciuto un indubbio carattere definitorio atto ad individuare i soggetti titolari dei singoli diritti sindacali disciplinati dall'art. 20 e segg. stat. lav., si è innestata la disciplina sulle "rappresentanze sindacali unitarie" (r.s.u.), previste dal Protocollo di Intesa trilaterale (Governo - Confindustria - Sindacato) del 23 luglio 1993, e regolate dall'accordo (delle tre Confederazioni con la Confindustria e con l'Intersind) del 20 dicembre 1993. Come risulta dagli atti difensivi delle parti in causa, detto accordo, da un lato, dispone che le organizzazione firmatarie o quelle che ad esso aderiscono successivamente acquistino il diritto di promuovere la formazione delle r.s.u. e di partecipare alle relative elezioni, rinunziando così alla costituzione di proprie r.s.a., e, dall'altro, contempla che le r.s.u. subentrino alle r.s.a. "nella titolarità dei diritti, dei permessi e libertà sindacali" del titolo 3^ dello statuto (art. 4, parte 1^) nonchè nella "titolarità dei poteri e nell'esercizio delle funzioni attribuite dalla legge" (art. 5, parte 1^). 
Da ultimo a rendere la materia in oggetto fonte di complesse problematiche - come attesta del resto la presente controversia - ha contribuito l'esito del referendum, svoltosi l'11 luglio 1995, di approvazione del secondo quesito diretto ad investire la lett. a) e le parole "nazionali o provinciali" della lettera b) dell'art. 19 stat. lav., con il risultato che oggi le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva solo nell'ambito delle associazioni "che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva".
E' stato osservato in dottrina che l'abrogazione referendaria della qualificazione, come nazionale o provinciale, dei contratti collettivi la cui stipulazione da titolo alla costituzione delle r.s.a. ha portato ad un allargamento delle maglie selettive attraverso le quali misurare la legittimazione delle organizzazioni ad esercitare le loro prerogative nelle diverse unità produttive. 
La validità di un tale assunto appare incontestabile se si osserva come attraverso l'abrogazione della lettera a) dell'art. 19 stat. lav. possa in astratto diminuirsi l'operatività a livello di singole unità produttive anche di organizzazioni sindacali che, pur maggiormente rappresentative sul piano nazionale, non risultino però firmatarie di contratti collettivi applicabili all'unità produttiva, e come di contro possano notevolmente ampliarsi nei luoghi di lavoro i poteri di organismi non collaudati sul piano storico e con seguito unicamente in un ristretto ambito territoriale. La rappresentatività utile per l'acquisto dei diritti sindacali nell'azienda viene così ad essere condizionata unicamente da un dato empirico di effettività dell'azione sindacale concretizzantesi nella stipula di qualsiasi contratto collettivo (nazionale, provinciale o aziendale) applicato nell'unità produttiva. Criterio questo che - come è doveroso ricordare in una ricostruzione storica delle diverse forme di "rappresentatività sindacale" - ha superato lo scrutinio di legittimità costituzionale (con riferimento agli artt. 3 e 39 Cost.) sul rilievo che "l'esigenza di oggettività del criterio legale di selezione comporta una interpretazione rigorosa della fattispecie dell'art. 19 tale da far coincidere il criterio con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro direttamente o attraverso la sua associazione, come controparte contrattuale", sicchè non è "sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto" e "nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, livello aziendale, di un contratto nazionale provinciale già applicato nella stessa unità produttiva" (in tali esatti sensi Corte Cost. 12 luglio 1996 n. 244 cui adde, per la statuizione che la rappresentatività negoziale valorizza l'effettività dell'azione sindacale, Corte Cost. 4 dicembre 1995 n. 492). Corollario di quanto sinora detto è che alla stregua della nuova normativa ben possono le rappresentanze sindacali aziendali essere costituite da una organizzazione sindacale di non rilevanza nazionale - perchè radicata in una specifica realtà geografica ma che sia tuttavia sottoscrittrice di un accordo collettivo applicato nell'unità produttiva di riferimento

venerdì 25 ottobre 2013

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soggettivo secondo la Cassazione

La sentenza di cui in seguito permette di riassumere, in maniera ampia e sistematica, la posizione attualmente espressa dalla Suprema Corte in tema di licenziamento per giustificato motivo sia oggettivo che soggettivo.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 settembre - 23 ottobre 2013, n. 24037
Presidente Stile – Relatore Blasutto
- come ritenuto da Cass. n. 21579 del 2008 (conf. Cass. n. 11775 del 2012), in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni inferiori siano compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.
- le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755/1998 conservano piena validità anche nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale; "anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell'impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità de lavoratore). Al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni" (sent. cit.).
- intanto il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, abbia prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori.
- non deve essere il lavoratore a dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la sua disponibilità a svolgere mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro prospettare al proprio dipendente, potenzialmente destinatario del provvedimento di licenziamento, in assenza di posizioni di lavoro alternative e compatibili con la qualifica rivestita, la possibilità di un suo impiego in mansioni di livello inferiore, di talché è il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
- l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell'ambito della organizzazione aziendale, gravante sul datore di lavoro, deve essere comunque mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sì che il lavoratore, pur non essendo gravato dalla relativa incombenza probatoria, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego. Tuttavia, la stessa giurisprudenza di questa Corte ha rilevato (v., in particolare, Cass. n. 7046 del 2011) che, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage, in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili. Non è vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).
-  nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, se il giustificato motivo oggettivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse.



- il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità (cfr., al riguardo: Cass. 22 agosto 2007 n. 17887);
- nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa, deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, tanto da imporre un'effettiva necessità di riduzione dei costi;
-  non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (in tal senso, v. Cass. n. 11465 del 2012 e Cass. n. 17087 del 2012, nonché ex plurimis: Cass. 25 marzo 2011 n. 7006, Cass. 26 agosto 2011 n. 19616, che precisa come la suddetta soppressione non possa essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma debba essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti e debba essere collegata ad effettive ragioni di carattere produttivo- organizzativo; v. pure Cass. 13021/2001; 2121/2004; 21282/2006);
-  occorre pur sempre - ed è questo l'ambito dell'accertamento demandato al giudice di merito - che risulti l'effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte dall'imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata attraverso l'indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economiche rimesse all'insindacabile scelta dell'imprenditore, la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento (ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso;
È vero che l'art. 41 Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, ma ciò significa che la libertà dell'imprenditore non equivale ad arbitrio e non è sottratta a qualsiasi controllo pubblico ed in particolare al controllo giurisdizionale. Ferma la insindacabile discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il giudice può così controllare il rispetto del diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma 1, art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i contrapposti interessi costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del lavoratore dipendente (cfr. Cass. 21710 del 2009);
il Collegato lavoro 2010 (non applicabile alla fattispecie ratione temporis) ha stabilito che "in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie relative al rapporto di lavoro privato o pubblico privatizzato contengano clausole generali, ivi comprese "le norme in tema di..... recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente" (art. 30, comma 1, l. n. 183 del 2010), con ciò ribadendo il principio - consolidato nella giurisprudenza di questa Corte - che non può essere sottratto al controllo giurisdizionale l'accertamento del "presupposto di legittimità" del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ipotesi di soppressione del posto di lavoro o in ipotesi di riduzione del personale;
-  il datore di lavoro ha l'onere di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 5893/1999, 12367/2003). Deve poi rilevarsi che possono considerarsi equivalenti a quelle espletate le mansioni oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, si armonizzano con la professionalità già acquisita dai lavoratore nel corso del rapporto, sì da impedirne la dequalificazione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 7370/1990).
-  ai sensi dell'art. 2103 cod.civ., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma (cfr. Cass. n. 6441/1988). Del pari, è stato ritenuto che non costituisce violazione dell'art. 2103 cod.civ. un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo (cfr. Cass. n. 9386/1993).
- Le Sezioni Unite (sentenza n. 7755/1998) hanno affermato che, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e artt. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore;
- A quest'ultimo riguardo, le Sezioni Unite hanno affermato che l'adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, neppure configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 cod. civ., ed anche art. 35 Cost., comma 2);

giovedì 17 ottobre 2013

LA SOLIDARIETA' DEL LAVORATORE E LA RITENUTA DEL DATORE DI LAVORO

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 23 maggio - 11 ottobre 2013, n. 23121
Presidente Cappabianca – Relatore Cigna

Con l'unico motivo l'Agenzia, deducendo -ex art. 360 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell'art. 35 dpr 602/73, rilevava che erroneamente la CTR aveva ritenuto che in presenza di un'unica fonte di reddito costituita da lavoro dipendente operasse il sistema della ritenuta d'imposta [con conseguente posizione residuale del sostituito e non applicabilità del detto art. 35); al riguardo evidenziava che il su menzionato art 35 si limitava all'espressa previsione della solidarietà tra sostituto e sostituito nella fase di riscossione ma che non vi era alcuna ragione per escludere i redditi di lavoro dipendente- che si pongono quale unica fonte di reddito- dall'applicabilità della ritenuta alla fonte a titolo di acconto (con conseguente previsione della solidarietà tra sostituito e sostituto ex art. 35 cit). Il motivo è fondato.
Va innanzitutto precisato che, come ribadito da questa Corte (v. Cass. 4509/2012), costituisce ritenuta a titolo di acconto quella operata su di un reddito che concorre a formare la base imponibile, mentre costituisce ritenuta a titolo di imposta quella operata su di un reddito non assoggettabile ad imposizione; in altre parole: se il reddito in questione non è esente da imposta e concorre a formare la base imponibile, la ritenuta è appunto un acconto, la cui definitiva congruità dovrà essere valutata in sede di consuntivo, il quale potrà evidenziare la sussistenza di un ulteriore debito o del diritto al rimborso; se, invece, il detto reddito non concorre a formare la base imponibile, la ritenuta costituisca un'imposta "secca", avendo evidentemente il legislatore ritenuto trattarsi comunque di una manifestazione di ricchezza, come tale assoggettabile a prelievo in via definitiva, in misura non ancorata all'ammontare complessivo dei redditi del contribuente.
Siffatta classificazione non appare, tuttavia, rilevante nel caso di specie, in quanto, a prescindere se la ritenuta sia prevista a titolo di imposta o a titolo di acconto, il fatto che il D.P.R. n. 600 del 1973, articolo 64, comma 1, definisca il sostituto d'imposta come colui che "in forza di disposizioni dì legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri... ed anche a titolo di acconto" non toglie che, in ogni caso, anche il sostituito debba ritenersi già originariamente (e non solo in fase di riscossione, come espressamente ribadito dai citato art. 35) obbligato solidale al pagamento dell'imposta; soggetto perciò egli stesso all'accertamento ed a tutti i conseguenti oneri. Fermo restando, ovviamente, il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo avere eseguito la ritenuta, non l'abbia versata all'erario, esponendolo così all'azione del fisco (Cass. 14033/2006; 24962/2010).

venerdì 11 ottobre 2013

nullità del contratto di somministrazione presso una Pubblica Amministrazione

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 1° ottobre 2013, ha affermato che pur in presenza di un contratto di somministrazione di manodopera nullo che ha riguardato, in qualità di utilizzatore, una Pubblica Amministrazione, non operano né la conversione del rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze di quest’ultima, né il diritto al godimento di un’indennità risarcitoria forfettaria. Quest’ultimo può essere riconosciuto soltanto in presenza di una prova rigorosa circa l’effettivo danno subito. Tutto questo in conseguenza del principio costituzionale (art. 97 Cost.) che disciplina l’assunzione dei lavoratori soltanto attraverso il pubblico concorso.

sabato 5 ottobre 2013

Conosciamo tutti il principio ordinariamente applicato in tema di obbligo di affissione del Codice disciplinare: ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass., n. 14997 del 2010).
Difficilmente il giudice che ravvisi una giusta causa di licenziamento accoglie l'eccezione di violazione dell'art. 7 SdL per l'omessa affissione del Codice, determinandosi un appiattimento tra la giusta causa ravvisata ed il minimo "etico o normativo" violato con il comportamento.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio – 3 ottobre 2013, n. 22626 Presidente Lamorgese – Relatore Tricomi - ci fornisce un (raro) caso di segno contrario.
Si tratta tuttavia di un rapporto di lavoro bancario che, come noto, è caratterizzato da alto tecnicismo.
La Corte afferma:

Ritiene questa Corte, in applicazione del suddetto principio, al quale si intende dare continuità, che mentre alcune condotte del direttore di filiale, quali l'accettazione distinte e documenti con firme non corrispondenti al c.d. specimen, o la mancata effettuazione delle registrazioni antiriciclaggio, ex sé, contrastano con il c.d. minimo etico o con norme penali, altre, come nel caso di specie, connesse alle possibili modalità di applicazione di alcuni istituti bancari, ad es. con riguardo ai termini di valutazione del rischio di illiquidità, possono integrare o collidere con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di congiunture economiche e di mercato, assunte dall'Istituto di credito, con la conseguente necessità della conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l'affissione del codice disciplinare.