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martedì 30 aprile 2013

Indennità di malattia - assegni familiari - le ipotesi penalmente rilevanti a carico del datore di lavoro


CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 aprile 2013, n. 18762
La sentenza in commento fa il punto in ordine ad una fattispecie ricorrente: il datore di lavoro porta in compensazione con l'INPS gli importi dovuti ad un dipendente a titolo di indennità di malattia (o a titolo di assegni familiari) salvo poi non corrisponderli effettivamente al lavoratore.
La Corte chiarisce che si configura il reato di truffa se l'azienda opera la compensazione facendo risultare un debito insussistente, cioè non rispondente ad una anticipazione non solo semplicemente non effettuata ma da non effettuare. 
Nel caso in cui  l'azienda dovesse indicare (questa l'ipotesi più frequente) correttamente l'esistenza di un'anticipazione che effettivamente avrebbe dovuto operare in favore di un dipendente, salvo poi non avergli di fatto corrisposto le indennità che, in effetti, sono a carico dell'INPS e che l'azienda si limita ad anticipare, si realizza l'ipotesi dell'appropriazione indebita che va coltivata non già dall'INPS ma dalla parte lesa, cioè dal lavoratore.
Di seguito il passaggio centrale della motivazione.
La Corte, fermandosi all'esame della verifica della sussistenza dell'elemento oggettivo del reato il cui difetto è coerente con la formula di proscioglimento adottata (il fatto non sussiste), rileva che nel caso di specie nei modelli DM 10 (prospetti con i quali mensilmente il datore di lavoro denuncia all'I.N.P.S. le retribuzioni mensili corrisposte ai dipendenti, ì contributi dovuti e l’eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell'ente, delle agevolazioni e degli sgravi; il versamento dei contributi dovuti sulla base dei dati indicati sul modello DM10 viene effettuato con il modello F24) la falsa rappresentazione riguardava non l'esistenza del debito portato a conguaglio, ma solo l'anticipazione delle relative somme al lavoratore.
Non può prescindersi inoltre dal considerare che le somme dovute per assegni familiari e indennità di malattia in favore del lavoratore costituiscono un debito dell'l.N.P.S. e non del datore di lavoro che, in forza dell'art. 1 D.L.n.633/79, è tenuto ad anticiparle salvo conguaglio.
Questa Corte ha già affermato che allorché il datore di lavoro si limiti ad esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatone, è configurabile il reato di cui all'art. 37 della legge 24 novembre 1981 n. 689 (qualora dal fatto derivi un'evasione contributiva per un importo mensile superiore a L. 5.000.000) e non il diverso reato di truffa, per il quale, oltre alle false dichiarazioni, devono sussistere artifici e/o raggiri di altra natura (Cass. sez.III 27 dicembre 2000 n. 12169, P.M, in proc.Doti) che, in ipotesi, potrebbero ravvisarsi ove all'I.N.P.S. fosse simulata la situazione air origine del debito portato a conguaglio.
Allorché, invece, la discordanza tra la situazione rappresentata all'I.N.P.S. e quella reale riguardi solo l'effettiva erogazione di somme che l'ente previdenziale è tenuto a corrispondere al lavoratore tramite il datore dì lavoro e quest'ultimo sostanzialmente riconosca il suo obbligo di corrisponderle (pur non avendole di fatto, ancora, corrisposte) nei confronti dei l'ente previdenziale il datore di lavoro sicuramente realizza -o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare-l'ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che assume di aver anticipato, ma non determina alcun danno. Il lavoratore, infatti, non potrebbe che rivolgersi al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta avendo l'I.N.P.S., attraverso il conguaglio, adempiuto il suo obbligo. Sotto questo profilo il reato di truffa non sussiste. Nel delitto di truffa, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l'elemento del danno deve infatti avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre - mediante la "cooperazione artificiosa della vittima" che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore del reato, compie l'atto di disposizione - la perdita definitiva del bene da parte della stessa (Cass. Sez.Un.16 dicembre 1998 n. 1, Cellammare). Nei caso di specie l'I.N.P.S., indicato nell'imputazione quale soggetto passivo del reato di truffa, non risulta aver risentito per effetto della condotta dell'imputata uno specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale ovvero un reale depauperamento economico, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.
Nella condotta ascritta all'imputata potrebbe invece eventualmente configurarsi il reato di appropriazione indebita nei confronti del lavoratore da parte del datore di lavoro che trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio in relazione a prestazioni di cui si è sostanzialmente riconosciuto debitore per conto dell'ente previdenziale e corrispondenti a somme di denaro determinate nel loro ammontare e già fatte figurare come erogate al lavoratore.

lunedì 29 aprile 2013

Reiterazione di contratti a termine. Grava sul datore di lavoro l’onere della prova di dimostrare che i contratti di lavoro sono stati stipulati nel rispetto delle percentuali indicate dai contratti collettivi e non travalicano l’accordo con i sindacati.




Cass., sez. lavoro, 4 aprile 2011, n. 7645
Il sig. Xxxx ha stipulato più contratti di lavoro a tempo determinato con Poste italiane come portalettere e ha chiesto che venisse accertata la nullità del termine, sin dal primo contratto. Il Tribunale di Pistoia ha dichiarato nulla la clausola apposta al primo contratto, mentre la Corte d’appello di Firenze ha ritenuto tale clausola legittima, accertando la nullità della clausola apposta al successivo contratto a tempo determinato e dichiarando che tra le parti era in atto un rapporto di lavoro dalla data della seconda stipula. Condannava Poste italiane al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di offerta della prestazione alla effettiva riammissione in servizio. Poste italiane ricorreva in Cassazione.


La Cassazione ha affermato che l’unica limitazione imposta alla contrattazione collettiva dalla l. n. 56/1987 era quella di stabilire il numero percentuale dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato; limitazione che funge da contrappeso agli ampi poteri assegnati alla stessa contrattazione, perché a fronte del sistema di tassatività previsto dalla l. n. 230/1962, la normativa del 1987 ha mostrato di volere procedere ad una significativa inversione di tendenza per avere, appunto, assegnato all’autonomia sindacale il compito di individuare ipotesi di contratti a termine ulteriori rispetto a quelle previste per legge. Relativamente alla prova dell’osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall’azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dalla l. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto.


sabato 13 aprile 2013

SULLA INDIVIDUAZIONE DELLE DOMANDE DA TRATTARE CON RITO FORNERO


La posizione oggi prevalente in Giurisprudenza, a distanza di mesi dall’entrata in vigore del nuovo rito, è nel senso di ricondurre ad unitaria trattazione con rito Fornero le domande tese ad ottenere la tutela ex art. 18 SdL e, in via gradata, la tutela ex L. n. 108/1990, oltre che domande fondate “sui medesimi fatti costitutivi”.
Sul punto ci si limita a richiamare l’ordinanza già citata del Tribunale di Roma (Pres. Sordi) del 28/11/2012, disponibile integralmente a questo link, che chiarisce il punto con lucidità e sistematicità 
Del resto, e come autorevolmente sostenuto da più parti, occorre ricordare come, secondo la giurisprudenza formatasi nel previgente regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, proposta dal lavoratore una domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, tale petitum doveva ritenersi comprensivo di quello concernente il riconoscimento della minore tutela di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, con la conseguenza che non violava il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato la sentenza con la quale il giudice, ritenendo carenti le condizioni per l’operatività dell’invocata tutela reale, condannava il datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, a corrispondergli l’indennità di cui al citato art. 8 (Cass., 9 settembre 1991, n. 9460). In un’analoga prospettiva, si è affermato, in tema di inefficacia del licenziamento, che, se il dipendente illegittimamente licenziato aveva chiesto l’applicazione dell'art.18 della legge n. 300 del 1970, e quindi anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, doveva accordare, sussistendo i relativi presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella prevista dall’art. 18 (Cass., 11 settembre 2003, n. 13375, in Foro it., 2003, I, 3321). Ovvero che non era ravvisabile mutamento della causa petendi nell’ipotesi in cui il dipendente che aveva impugnato il licenziamento, deducendone la illegittimità per mancanza di giustificato motivo, proponeva con ricorso introduttivo domanda di tutela reale, mentre, in sede di precisazione delle conclusioni, richiedeva quella obbligatoria, in quanto, in detta ipotesi, il mutamento riguardava solo gli effetti ricollegabili alla tutela richiesta da ultimo, che sono compresi in quelli cui dà luogo la tutela originariamente invocata (Cass., 27 agosto 2003, n. 12579; Cass., 19 novembre 2001, n. 14486); così come doveva ritenersi ammissibile la domanda, proposta per la prima volta in appello dal lavoratore illegittimamente licenziato, diretta ad ottenere la riassunzione ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, ove in primo grado il lavoratore medesimo avesse proposto la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18, atteso che la prima doveva ritenersi compresa, come minus, in quest’ultima (Cass., 11 settembre 1997, n. 8906, in Foro pad., 1998, I, 10). Insomma, dalla pregressa giurisprudenza emerge con nettezza l’impostazione secondo la quale la domanda di concessione della tutela assicurata dall’art. 18 conteneva implicitamente anche quella di minore intensità prevista dall’art. 8.  
Del resto se si ritenesse un questo caso necessaria una separazione della domanda impugnatoria ex art. 18 SdL da quella finalizzata alla mera tutela obbligatoria, avremmo il risultato concreto di due giudizi pendenti innanzi al medesimo giudice che, per evidenti ragioni di connessione, andrebbero trattate unitariamente, per evitare anche potenziali ed imbarazzanti conflitti di giudicato.

IL DIBATTITO SULLA FACOLTATIVITÀ O MENO DEL “RITO FORNERO”


I comma 47 e 48 (prima parte) dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 recitano:
47. Le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
48. La domanda avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all'articolo 125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Tale è la lettera della legge, nella parte che oggi interessa.
Dopo una iniziale e generale perplessità sembra prevalere la tesi dell’obbligatorietà del rito nelle ipotesi contemplate dalla norma. Ovviamente per “obbligatorietà” intendiamo l’impossibilità per chi impugna licenziamento in area di tutela reale, di agire con rito ordinario. Per essere ancor più precisi, quindi, e allo stato dell’arte, il c.d. rito “Fornero” non è da intendersi quale rito speciale, bensì quale rito, per l’appunto, ordinario, nelle ipotesi in cui venga, in primis, invocata la tutela ex art. 18 SdL.
Tuttavia anche la ritenuta “obbligatorietà del rito” (locuzione, come detto, imprecisa ma efficace), presupposta alla scelta dell’Ufficio di ricondurre il tutto al rito Fornero, non è una soluzione del tutto pacifica ancora oggi.
Ad esempio, e per citare un caso emblematico, il Tribunale di Firenze (adottando una prassi che sarebbe auspicabile in tutti gli Uffici Giudiziari e, in particolare, nelle sezioni specializzate) in data 17/10/2012 ha prodotto un protocollo, condiviso da tutti i giudici della sezione, che indica le opzione interpretative applicabili a seguito della riforma procedurale.
La prima di tali indicazioni risiede proprio nella facoltatività del rito Fornero. Queste le indicazioni contenute nel documento (disponibile, se richiesto, in copia): “è facoltà della parte intraprendere un giudizio di impugnativa di licenziamento rientrante nell’art. 18 L. 300/70 con il rito previsto dalla riforma Fornero. Infatti è la parte attrice che deve valutare se nel caso concreto sia più utile procedere con tale nuovo rito o se sia più confacente agli interessi del cliente un ricorso ex art. 414 c.p.c. ( ad esempio perché la domanda si associa ad ulteriori richieste afferenti il rapporto di lavoro, come ad esempio differenze retributive, diverso inquadramento, ecc.). Depongono in favore di questa interpretazione sia il fatto che la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in materia di art. 28 L.300/70 (procedimento che ha qualche analogia con il rito in questione) ha già ritenuto ammissibile un’azione proposta ex art. 414 c.p.c., sia il fatto che, non essendo possibile presentare con il rito speciale domande diverse da quelle di cui al comma 47 dell’art. 1 della L. 92/2012, sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente abbia più istanze di tutela, a proporre più cause ( moltiplicando i processi)”.
A ciò si aggiunga che è risultata altrettanto prevalente la posizione di chi ritiene che la prima fase (sommaria) del rito sia superabile per accordo tra le parti. Tale soluzione si risolve, in pratica, nella possibilità di bypassare la fase che più di tutte caratterizza il c.d. rito Fornero, avviando, nella sostanza, direttamente l’ordinario giudizio a cognizione piena. Nonostante gli sforzi di chi ha inteso conciliare tale possibilità con la succitata “obbligatorietà”, non v’è chi non veda come da questa soluzione esca fortemente ridimensionata la suddetta “obbligatorietà”, o, quantomeno, fortemente diluita.
A ciò si aggiunga che tale “obbligatorietà” va contemperata con il pieno ed indiscutibile diritto di concentrare in un’unica azione giudiziaria le proprie rivendicazioni. O meglio: l’obbligatorietà suddetta va contemperata con l’altrettanto pacifico divieto di frazionamento della domanda.
Il divieto di frazionamento (da Cass. SS.UU. n. 23726/2007 in poi) non è riferibile solo all’impugnativa di licenziamento, ma anche alle eventuali differenze stipendiali che hanno origine dal medesimo rapporto di lavoro. Ed inoltre, all’interno dell’impugnativa di licenziamento, la tendenziale concentrazione delle domande deve (a maggior ragione) riguardare anche le domande poste in posizione di graduazione, come nel caso di una subordinata domanda di tutela obbligatoria proposta a partire dall’”identico fatto costitutivo” (per adoperare l’espressione del Legislatore) rappresentato dal licenziamento. Sul punto ci soffermeremo più estesamente nel prosieguo.
Orbene, si potrà tacciare di inammissibilità un’azione con la quale il lavoratore abbia ricondotto tutte le domande (impugnativa di licenziamento e richieste stipendiali) al rito, per così dire, “accelerato” previsto dalla riforma, da ritenersi senza dubbio alcuno di miglior favore per chi agisce in giudizio e, quindi, per il lavoratore; ma di certo non potrà validamente sollevarsi alcuna eccezione nel qual caso il lavoratore, nel pieno rispetto di quel principio di correttezza e buona fede che è presupposto al divieto di frazionamento della domanda, abbia proposto l’azione secondo l’ordinario rito e, quindi, rinunciando alla “corsia preferenziale” approntata dalla novella legislativa.

domenica 7 aprile 2013

Trasferimento di azienda (art. 2112 c.c.): non sussiste nel caso di mero trasferimento azionario o di quote di controllo


CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 marzo 2013, n. 6131

Con la pronuncia che allego a questo link, la Corte precisa l'ambito di operatività dell'art. 2112 c.c., escludendolo in caso di mera vendita di pacchetto azionario di controllo.


La sintesi della sentenza nella parte di maggiore interesse.


Osserva il Collegio che al caso in esame non trova applicazione l'art. 2112 c.c. essendosi trattato di un passaggio del pacchetto di controllo (delle quote, che è cosa diversa dalla fusione) di una società di capitali che non integra un passaggio di azienda da una società ad un'altra. Se è vero, infatti, che la nozione di trasferimento di azienda va oggi riferita ad ogni cambiamento della titolarità dell'azienda stessa, quale che sia lo strumento giuridico mediante il quale si realizza la sostituzione dall'uno all'altro imprenditore, è altrettanto vero che nella fattispecie in questione è carente il presupposto stesso di tale istituto.
Questa Corte ha affermato infatti in numerose pronunce (Sentenza n. 9251 del 218/04/2007, Cass. 15.10.1991 n. 10829; 26.11.1994 n. 10068) che il trasferimento del pacchetto (azionario o di quote) di maggioranza di controllo di una società non incide sull'autonoma soggettività giuridica delle società interessate e non vale ad integrare il passaggio della titolarità dell'azienda dall'una all'altra società ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., non determinando, in definitiva, la sostituzione di un soggetto giuridico ad un altro nella titolarità dei rapporti pregressi. Ed infatti, nell'ipotesi in cui si sia di fronte al trasferimento del pacchetto azionario o delle quote di controllo da una società all'altra, non si è in realtà in presenza di un fenomeno traslativo vero e proprio, bensì di una vicenda rilevante solo dal punto di vista della modificazione degli assetti azionari ( o delle quote) interni ad una società sotto il profilo della loro titolarità, ferma restando la soggettività giuridica di ogni società anche se totalmente eterodiretta.

Previdenza integrativa e complementare: natura dei versamenti


CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 04 aprile 2013, n. 8228

Riporto uno stralcio dell'ordinanza che allego integralmente a questo link.

La domanda dei lavoratori era di inserimento, nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto e dell'indennità di anzianità, dei contributi corrisposti dalla Cassa al Fondo integrativo pensioni (FIP) istituito dalla banca con lo scopo di garantire agli iscritti in possesso di determinati requisiti un trattamento pensionistico integrativo delle prestazioni erogate dal sistema previdenziale pubblico.
.....
Infatti, con sentenza n. 8843/2012 e con altre ordinanze conformi pronunciate in fattispecie del tutto analoghe, immutando il precedente orientamento, si è negata l'esistenza del diritto fatto valere, sulla base delle seguenti considerazioni: «1. Recita l'art. 2121 cod. civ. in tema di indennità di anzianità, che è pur sempre in vigore per l'anzianità maturata prima del maggio 1982 ex art. 5 legge 297/82, che l'indennità deve essere computata « calcolando le provvigioni, i premi di produzione e la partecipazione agli utili o ai prodotti, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.»
Pertanto la nozione dì retribuzione delineata dal questa norma presuppone che vi sia un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore e che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa; si deve quindi trattar dì somme aventi carattere e funzione retributiva, e proprio per questo motivo queste indennità vengono denominate come "retribuzione differita". 
2. La indennità di anzianità e il TFR, devono quindi "rispecchiare" il trattamento economico "corrisposto" durante lo svolgimento del rapporto medesimo, avendo la funzione di essere d'ausilio al lavoratore nel periodo in cui, cessato il rapporto di lavoro, viene meno il diritto alla retribuzione che prima veniva percepita, sicché sarebbe incongrua la inclusione di somme di cui durante lo svolgimento non si è mai goduto.

Il beneficio, che al lavoratore apporta il rapporto di previdenza integrativa, non è costituito dai "versamenti" effettuati dal datore, ma dalla pensione che con essi verrà conseguita.
La contribuzione infatti, data la funzione del Fondo, per sua natura non può entrare nel patrimonio dei lavoratori  interessati, i quali possono solo pretendere che venga versata al soggetto indicato nello Statuto. Il lavoratore non la riceve né nel corso del rapporto, né alla sua cessazione, essendo solo il destinatario di una aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, che si concreterà esclusivamente al maturarsi di certi requisiti e condizioni.

Il carattere non retributivo dei versamenti effettuati dal datore per la previdenza integrativa è avvalorato dal regime previdenziale che li regola.

la Corte Costituzionale ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell'art. 38 Cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale.


Va così definitivamente stabilito che i versamenti effettuati dal datore ai fondi di previdenza complementare, quali che siano i lineamenti del Fondo, non sono assoggettati a contribuzione Inps ma solo ad un contributo di solidarietà ( valido a regime e riferito anche al passato ma solo per gli anni dal 1 settembre 1985 al 30 giugno 1991), così escludendosi che questi abbiano natura retributiva

Va ancora considerato che i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi dell'art. 3 comma 2 lettera a) d.lgs. 314/97.
E d'altra parte sarebbe incongruo riconoscere natura retributiva, tale quindi da determinarne la inclusione nel computo delle indennità spettanti alla fine del rapporto, a somme su cui non si versa la contribuzione previdenziale propriamente detta e che non entrano neppure tra i redditi da lavoro dipendente ai fini fiscali.

Mette conto infine di segnalare la recente legislazione sul rapporto tra previdenza complementare e TFR che si compendia con i commi 755 e 756 dell'articolo unico della legge finanziaria 296/2006.
Si tratta delle disposizioni che prevedono il conferimento del TFR alla previdenza complementare: all'esito della parabola sopra illustrata non sono dunque i versamenti contributivi per la previdenza complementare che vengono inclusi nel TFR, ma è quest'ultimo che serve ad alimentare la previdenza complementare.





Riforma Fornero e contratti a termine: sintesi delle novità.


Il primo rapporto a termine può non specificare le ragioni dell’apposizione del termine. 
Rispetto alla formulazione della norma, i dubbi più rilevanti sono emersi con riferimento all’inciso di «primo rapporto a tempo determinato», che è stato inteso dalla maggioranza degli interpreti, in  senso ampio, come primo rapporto di lavoro al servizio dello stesso  datore di lavoro13. 
L’intenzione di introdurre un primo contratto a tempo  determinato «acausale», ripercorrendo la teleologia dell’intervento, è  finalizzata ad incentivare l’utilizzo di tale strumento quando vi sia  necessità da parte del datore di lavoro, prima della assunzione, di «una  miglior verifica delle attitudini e capacità professionali del lavoratore», in  relazione all’inserimento nello specifico contesto lavorativo, così da far  rimanere escluso che tale tipologia di assunzione possa utilizzarsi anche  quando il lavoratore abbia già svolto prestazioni presso la stessa azienda  a carattere subordinato ovvero anche come lavoratore autonomo.

Altro tema è quello degli intervalli minimi per la riassunzione, che il legislatore italiano nella prima versione dell’art. 5, del d.lgs. n. 368/2001 aveva fissato in dieci o venti giorni (a seconda della durata del rapporto inferiore o superiore a sei mesi), e che, in applicazione della  interpretazione della Corte di giustizia, sono stati estesi a sessanta o novanta giorni a seconda che il rapporto sia stato stipulato per un periodo inferiore o meno a sei mesi.

A decorrere dal 1 gennaio 2013, è stato raddoppiato il termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale della nullità del termine apposto al contratto, passato da sessanta a centoventi giorni (art. 1 commi 11 e 12, l. n. 92/2012 che modifica l’art. 32, comma 3, l. n. 183/2010).

Nella seconda parte della lett. a), comma 11, art. 1, legge n. 92/2012, è stata prevista, inoltre, la riduzione a centottanta giorni del termine per il deposito del ricorso innanzi al giudice del lavoro, decorrente dalla data della iniziale impugnativa stragiudiziale, e che ha lasciato applicata la dilazione a duecentosettanta giorni, già prevista nella previgente versione dell’art. 32, comma 3, lett. d), l. n. 183/2010, per i soli contratti impugnati in via stragiudiziale entro il 1 gennaio 2013.

LE DIFFERENZE RETRIBUTIVE VANNO CORRISPOSTE AL LORDO E NON AL NETTO


Cassazione Sezione Lavoro n. 3525 del 13 febbraio 2013, Pres. De Renzis, Rel. Venuti.

L'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore. Ed infatti, quanto a queste ultime, al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo ai sensi dell'art. 19 della legge 4 aprile 1952, n. 218; per quanto concerne, invece, le ritenute fiscali, esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacché la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che egli abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli.

SOMMINISTRAZIONE DI MANODOPERA - FORMA DEL CONTRATTO

Di seguito un breve stralcio di: 
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2012 - 3 aprile 2013, n. 8120 
in tema di somministrazione di manodopera. 

La sentenza ribadisce:
- che il contratto deve specificare le ragioni tecniche, produttive o organizzative che giustificano il ricorso alla somministrazione;
- che le ragioni possono essere anche plurime purchè non contraddittorie;
- sono valide indicazioni del tipo: "lancio di nuovi prodotti", "punte stagionali", con applicazione della casistica formatasi per i contratti a termine;
- il giudice è chiamata ad una valutazione di merito che non può travalicare l'opportunità delle scelte imprenditoriali.
Di seguito alcuni passaggi della sentenza (che allego in versione integrale a questo link):

La questione è in realtà duplice. Il primo problema è quello di stabilire, in termini generali, se il contratto commerciale di somministrazione tra l'agenzia somministratrice e l'utilizzatore del lavoro interinale debba contenere la specificazione delle ragioni per le quali l'impresa utilizzatrice ricorre alla somministrazione. Problema distinto è poi quello di verificare se le ragioni indicate nel singolo contratto siano o meno specifiche.


la risposta da dare al problema concernente la necessità o meno che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate, non può che essere positiva.


tali ragioni devono essere indicate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto e da rendere possibile la verifica della loro effettività.


Nel caso in esame le ragioni del ricorso al lavoro in somministrazione sono state indicate in "punte di più intensa attività produttiva", alle quali non era possibile far ricorso con i normali assetti produttivi aziendali, determinate "dall'acquisizione di commesse" o dal "lancio di nuovi prodotti".
Questa indicazione delle ragioni in sede contrattuale è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente specifica.


Il fatto che siano state indicate più causali è anch'esso stato considerato dalla giurisprudenza di legittimità, che, occupandosi dei contratti a termine ha affermato il principio di diritto per il quale la pluralità di ragioni di apposizione del termine non collide con il criterio della specificità, a condizione che entrambe le ragioni specificate per iscritto rispondano a tale requisito e tra le stesse non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà (Cass. 16 marzo 2010, n. 6328; ma già Cass. 17 giugno 2008, n. 16396, nonché Cass. 22 febbraio 2012, n. 2622).