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domenica 26 giugno 2011

DECRETO SVILUPPO E ASSUNZIONE DEI PRECARI SCUOLA

Riporto di seguito l'unica e sola norma del Decreto Sviluppo sulla quale si poggiamo le speranze dei precari della scuola.
Come si leggerà, la norma non abroga il precedente vincolo (art. 64 d.l. 112/08) che aveva imposto tagli, ma rimette al Ministro la possibilità di varare un piano di assunzioni contemperandop fabbisogno e risorse.

Comma 17 dell'Art.9 del DECRETO-LEGGE 13 maggio 2011, n. 70.

17. Per garantire continuità nella erogazione del servizio scolastico e educativo e conferire il maggiore possibile grado di certezza nella pianificazione degli organici della scuola, nel rispetto degli obiettivi programmati di finanza pubblica, in esito ad una specifica sessione negoziale concernente interventi in materia contrattuale per il personale della Scuola, che assicuri il rispetto del criterio di invarianza finanziaria, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, nel rispetto degli obiettivi programmati dei saldi di finanza pubblica, è definito un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato, di personale docente, educativo ed ATA, per gli anni 2011-2013, sulla base dei posti vacanti e disponibili in ciascun anno, delle relative cessazioni del predetto personale e degli effetti del processo di riforma previsto dall’articolo 64 della legge 6 agosto 2008, n. 133. Il piano è annualmente verificato dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze e con il Ministero per la pubblica amministrazione ed innovazione ai fini di eventuali rimodulazioni che si dovessero rendere necessarie, fermo restando il regime autorizzatorio in materia di assunzioni di cui all’articolo 39, comma 3 bis, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 e successive modificazioni.

PROGRESSIONI VERTICALI: NON SI APPLICA IL PATTO DI STABILITA'

“Il patto di stabilità non si applica alle progressioni verticali (o concorsi interni), perché non costituiscono – ai fini finanziari – nuova assunzione di personale (ma solo modificazione di un rapporto di lavoro preesistente)”
Lo ha stabilito il Tar Sicilia, con sentenza n. 647 del 2011 (presidente Adamo, estensore La Greca).
La sentenza supera il precedente orientamento della Commissione speciale pubblico impiego del Consiglio di Stato, che, con parere n. 3556/2005, aveva invece chiarito che per “assunzione di personale” dovesse intendersi “oltre al reclutamento di nuovo personale da inserire in organico tramite concorsi pubblici aperti a tutti, anche il reclutamento, in una determinata area di inquadramento, di personale interno alla stessa amministrazione proveniente”.
Nulla invece cambia rispetto all’attuale indirizzo giurisprudenziale, che individua nelle progressioni verticali delle vere e proprie assunzioni di personale, seppure con riferimento ed ai fini del riparto di giurisdizione.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, già con sentenza n. 15403/2003, aveva incluso nel concetto di “procedure concorsuali per l’assunzione” anche i concorsi interni “per il passaggio ad un’area o fascia superiore”, così riconoscendo la sussistenza della giurisdizione amministrativa su tutte le questioni aventi ad oggetto concorsi pubblici implicanti tale passaggio.
Il Tar Sicilia distingue:
“Una cosa è considerare le progressioni verticali o concorsi interni ai fini del riparto di giurisdizione (che rimane amministrativa), altra cosa è la (non condivisa) parificazione della progressione (che si genera nell’ambito di un rapporto già preesistente) ad un nuovo reclutamento, ai fini del rispetto delle norme finanziarie”.
Dunque, da un lato è consentito equiparare le progressioni verticali ai concorsi pubblici (e, quindi, a nuove assunzioni), per attribuire le relative controversie alla giurisdizione amministrativa, dall’altro i concorsi interni vanno considerati semplice modifica del rapporto di lavoro preesistente, e dunque il divieto di assunzione stabilito da norme finanziarie non trova applicazione.
Gli enti locali potranno dunque procedere a progressioni verticali, , anche se non in regola con il patto di stabilità.
Riportiamo di seguito la parte motiva della sentenza.
(…)
“La ricorrente è una dipendente del Comune di Altofonte, inquadrata – al momento della proposizione del ricorso – alla cat. C4, ed ha partecipato alla procedura selettiva per la copertura, mediante selezione interna (o progressione verticale), di due posti di «specialista in attività amministrative», cat. D1 (…)
Successivamente, il Responsabile del Servizio finanziario ed il Collegio dei revisori dei conti del Comune di Altofonte hanno rappresentato al Sindaco ed al Direttore generale del medesimo Comune l’asserita necessità di disporre la sospensione della procedura concorsuale ovvero l’adozione di un provvedimento di autotutela, considerato che il medesimo Comune è risultato non in regola con il rispetto delle disposizioni in tema di patto di stabilità interno, siccome regolato dalla legge vigente ratione temporis, circostanza, questa, cui consegue il divieto di nuove assunzioni.
Sul punto, la Giunta ha ritenuto di far proprie siffatte valutazioni di ordine tecnico-finanziario e, con la deliberazione impugnata, ha disposto di non approvare gli atti della già conclusa procedura, invitando gli organi burocratici all’adozione dei conseguenti provvedimenti di autotutela, ciò che ha comportato un atto di arresto rispetto alla naturale conclusione dell’iter selettivo sulla base delle risultanze della selezione (…)
9. La questione di diritto da dirimere è se il divieto di assunzioni di cui alla l. n. 311 del 2004 e relativo agli enti non in regola con le norme sul patto di stabilità debba ritenersi esteso (anche) alla cd. progressione verticale o concorso interno, istituto, questo, al momento della emanazione della deliberazione impugnata, regolato da un assetto ordinamentale sensibilmente diverso da quello recato dall’odierno art. 24, comma 1, d. lgs. n. 150 del 2009, laddove quest’ultimo è strutturalmente delineato in termini di riserva nei concorsi pubblici (Tar Calabria, Reggio Calabria, 23 agosto 2010, n. 914).
Ad avviso del Collegio, alla luce della disposizione contrattuale di cui all’art. 4 C.C.N.L. 31.3.1999 e delle norme recate dal d. lgs. n. 165 del 2001, con particolare riferimento agli artt. 2, 35, 52, 63, nonché dall’art. 91 del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (nel testo della corrispondente legislazione siciliana contenuto all’art. 2, comma 3, l.r. 7 settembre 1998, n. 23, di recepimento dell’art. 6, comma 12, della l. 15 maggio 1997, n. 127), le progressioni verticali, risolvendosi nel passaggio alla categoria immediatamente superiore del sistema di classificazione delle professionalità, costituiscono un mero sviluppo di carriera nell’ambito del rapporto di lavoro già incardinato con la pubblica amministrazione, con la conseguenza che, in assenza di una specifica contraria prescrizione legislativa, esse, ai fini della disciplina finanziaria, non integrano la fattispecie della «nuova assunzione» ivi prevista e, dunque, sfuggono al blocco dei reclutamenti.
Nè a diverse conclusioni potrebbe giungersi sulla base dell’approdo ermeneutico cui è pervenuta la Commissione speciale pubblico impiego del Consiglio di Stato – sez. III, con il parere n. 3556/2005, allorché, a seguito di una richiesta di parere del Ministero dell’economia e delle finanze, ha dato al quesito risposta positiva: in tale circostanza il pronunciamento ha riguardato procedure regolate da un Comparto di contrattazione – quello del personale non dirigenziale della predetta Amministrazione statale -, diverso da quello delle Regioni ed Autonomie locali, al quale appartiene l’Amministrazione intimata.
Il concorso interno o progressione verticale per cui è causa risulta qui regolato unicamente dalla fonte negoziale del tempo, ossia dal richiamato art. 4 del C.C.N.L. del Comparto Regioni-Autonomie locali del 31 marzo 1999, come confermato dall’art. 9 del C.C.N.L. del 5 ottobre 2001: ai sensi di tale disciplina, infatti, «[...] le procedure selettive per la progressione verticale [sono, n.d.e.] finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria immediatamente superiore del nuovo sistema di classificazione [...]» (comma 1) e «il personale riclassificato nella categoria immediatamente superiore a seguito delle procedure selettive previste dal presente articolo, non è soggetto al periodo di prova» (comma 5).
Ed infatti, una cosa è considerare le progressioni verticali o concorsi interni (sulla fungibilità dei due concetti cfr. la «dichiarazione congiunta n. 1» in calce al C.C.N.L. del Comparto Regioni – Autonomie locali del 22 gennaio 2004), equiparate ai concorsi pubblici (questi sì finalizzati ad una nuova assunzione) ai fini del riparto di giurisdizione, altra cosa è la (non condivisa) parificazione della progressione (che si genera nell’ambito di un rapporto già preesistente) ad un nuovo reclutamento ai fini del rispetto delle norme finanziarie (quantunque nel caso di specie la giurisdizione del g.a. si fonda sulla natura di atto di organizzazione per ragioni di finanza pubblica dell’impugnata deliberazione della Giunta comunale).
Una tale lettura, estensiva, delle norme finanziarie della l. n. 311/2004, a base del provvedimento impugnato, seppure astrattamente non irragionevole, ad avviso del collegio non poteva spingersi – sempre ratione temporis e dal punto di vista ermeneutico – fino all’assimilazione della progressione, espressione di un rapporto di lavoro già instaurato, con la diversa fattispecie cui, come detto, dà luogo una nuova assunzione in senso stretto.
Sul punto, l’assunto secondo cui nell’ambito del Comparto di contrattazione proprio del personale comunale la progressione verticale non costituisce una nuova assunzione è, peraltro, assistito, ad avviso del Collegio, da alcuni indici rivelatori della differenza tra i due istituti, allorché le disposizioni contrattuali di riferimento precisano, ad esempio, che:
a) in caso di nuova assunzione è necessario che l’unità di personale reclutata sia sottoposta al periodo di prova, ciò che è escluso in ipotesi di progressione (cfr. art. 4, comma 5, C.C.N.L. 31.3.1999, cit.);
b) in caso di progressione verticale nel sistema di classificazione, invece, non deve essere stipulato un nuovo contratto individuale: l’ente deve limitarsi a comunicare al dipendente il nuovo inquadramento ai sensi del citato art. 12, comma 1, del CCNL del 31.3.1999;
c) è consentita l’erogazione della retribuzione individuale di anzianità (cd. R.I.A.) al personale dipendente dello stesso ente transitato nella categoria superiore per effetto di selezioni interne ai sensi dell’art. 4, del CCNL del 31.3.1999 (cfr. Aran, n. 104-Va7).
L’impostazione data dall’Amministrazione, la quale ha optato per una lettura, come detto, estensiva del divieto di assunzioni, a maggior ragione non resiste alla censura qui in esame, con riguardo alle circostanze di fatto, considerato che, come emerge dagli atti di causa, si è nella specie verificata quella particolare circostanza che vede, in linea generale, la previsione di una retribuzione di provenienza superiore, in termini di valore assoluto, rispetto a quella iniziale propria della categoria di destinazione (si veda il rapporto tra le retribuzioni proprie delle categorie C4 e D1 al momento della procedura concorsuale), tale, peraltro, da rendere possibile il riconoscimento – contrattuale – di un assegno ad personam finalizzato a colmare temporaneamente tale differenza fino al successivo riassorbimento a seguito di progressione economica nella nuova categoria (art. 9 C.C.N.L. 9 maggio 2006).
Ciò detto, e per concludere, sempre in relazione alle previsioni della l. n. 311 del 2004, va ricordato che si trattava di una legge finanziaria, dunque inidonea a consentire una approccio interpretativo tale da sconfinare dal mero ambito della finanza pubblica ed incidere sulla natura giuridica di istituti, quali la cd. progressione verticale, strettamente inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, che trovano altrove la loro sedes materiae.
Ed infatti, nonostante la ricorrente prassi parlamentare in senso contrario, la legge 5 agosto 1978, n. 468, di riforma della contabilità generale dello Stato in materia di bilancio, impedisce alla legge finanziaria di contenere norme di delega o di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio, dovendo essa contenere «esclusivamente» norme tese a «realizzare effetti finanziari con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale».
Pertanto, una norma della legge finanziaria che intendesse fornire – peraltro in via del tutto incidentale e meramente giustificativa e non precettiva – una seppur tacita nuova qualificazione all’istituto anche di natura interpretativa od ordinamentale, potrebbe far sorgere dubbi di costituzionalità.
Ciò comporta l’irrilevanza dell’invocata disposizione della legge finanziaria, che sta alla base del provvedimento impugnato nella specifica lettura datane dal Comune di Altofonte, atteso che tra due possibili interpretazioni della norma, va privilegiata – per costante insegnamento anzitutto della Corte Costituzionale – quella per cui la stessa risulta più conforme ai principi.
10. Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbita ogni altra questione poiché ininfluente o irrilevante ai fini della presente decisione, il ricorso, poiché fondato, va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
11. La peculiarità e novità della fattispecie esaminata si configurano come circostanze che, in via d’eccezione, consentono al Collegio di dichiarare irripetibili nei confronti delle parti non costituite le spese e gli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione terza, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato, nella stessa epigrafe indicato.
Spese irripetibili.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 11 marzo 2011 con l’intervento dei magistrati:
Calogero Adamo, Presidente
Federica Cabrini, Consigliere
Giuseppe La Greca, Referendario, Estensore
Depositata in segreteria l’1 aprile 2011″

RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO NULLO: IL DIPENDENTE VA COMUNQUE RETRIBUITO COME PUBBLICO IMPIEGATO

Nel caso di instaurazione di un rapporto di lavoro con la p.a., avente le caratteristiche del pubblico impiego ma tuttavia nullo per violazione di norme imperative, il trattamento economico dei soggetti privati titolari del rapporto va determinato alla luce dell’art. 2126 c.c., avendo presente il rapporto di pubblico impiego; pertanto, le prestazioni lavorative rese non possono essere retribuite mediante l’attribuzione di una paga oraria, ma mediante uno stipendio tabellare mensile lordo iniziale rapportato alle funzioni svolte, comprensivo della indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità, nonché degli altri elementi accessori e continuativi della retribuzione (nella specie, contributo posto, premio di produzione, ecc.), ed infine mediante, erogazione della indennità di fine rapporto. ( In senso conforme: Adunanza Plenaria del Consiglio Stato, decisione 8 aprile 1995, n. 7)

In punto di nullità del rapporto di pubblico impiego si segnalano, inoltre, le seguenti massime che costituiscono un approdo ormai ampiamente consolidato in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato:

1) Il rapporto di lavoro avente le caratteristiche del pubblico impiego, costituito in contrasto con le norme imperative che disciplinano le assunzioni della pubblica amministrazione, è nullo ma rileva come rapporto di mero fatto, per il quale, ai fini retributivi e previdenziali, deve trovare applicazione l’art. 2126, c.c.; infatti, gli effetti derivanti dalla predetta norma civilistica sono connessi alle prestazioni lavorative di fatto, che sono tali proprio in quanto gli atti in base ai quali le prestazioni stesse sono state svolte sono affetti da nullità per contrasto con norme imperative” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, Sentenza n. 5262/2007).

2) Quando il rapporto di lavoro avente le caratteristiche del pubblico impiego sia sorto in violazione di norme imperative che ne sanzionavano la nullità di diritto e la improduttività di effetti a carico dell’amministrazione (nella specie, quelle di cui agli art. 18, l. n. 808 del 1977, ed art. 123, d.P.R. n. 382 del 1980), il rapporto stesso viene comunque a rilevare come rapporto di fatto per il quale trova applicazione ai fini retributivi e previdenziali l’art. 2126, c.c., salvo che la nullità derivi dalla illiceità dell’oggetto o della causa”. (Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n- 4620/2007).

(© Litis.it, 22 Giugno 2011 – Ugo Sttapp. Riproduzione riservata)

Consiglio di Stato, Sezione Quinta, Sentenza n. 3464 del 08/06/2011

FATTO

Con la decisione oggetto del presente incidente di esecuzione, questa Sezione, accogliendo il ricorso per l’esecuzione del giudicato nei confronti dell’Amministrazione convenuta, fissava un termine all’Amministrazione stessa per il pagamento delle differenze retributive e previdenziali spettanti al ricorrente per lo svolgimento di fatto di mansioni di pubblico impiego, nominando, all’uopo, il commissario ad acta.

In sede di esecuzione, la PA convenuta corrispondeva al ricorrente, a titolo di differenze stipendiali e di contribuzione previdenziale ed assistenziale, una somma che il ricorrente medesimo riteneva non congrua.

Con il presente incidente di esecuzione il ricorrente contesta la quantificazione del debito operata dalla PA, in particolare rilevando la mancata considerazione di alcuni elementi della retribuzione, quali l’anzianità individuale, l’indennità di turno, l’indennità di rischio, le ferie non godute, le festività retribuite e il lavoro ordinario festivo, lo straordinario, gli assegni per il nucleo famigliare e il TFR.

Alla camera di consiglio del 24 maggio 2011, il ricorso veniva posto in decisione.

DIRITTO

La questione sollevata dal ricorrente riguarda l’esatta quantificazione di quanto dovuto dall’Amministrazione in conseguenza delle sentenza di questa sezione, per l’esecuzione del giudicato nei confronti dell’Amministrazione convenuta, giudicato concernente la condanna al pagamento delle differenze retributive e previdenziali spettanti al ricorrente per svolgimento di fatto di mansioni di pubblico impiego.

Sotto un primo profilo, il collegio osserva che la sentenza di cui si chiede l’esatta esecuzione condanna l’Amministrazione senza limitare o escludere in alcun modo determinate voci o elementi della retribuzione dall’ammontare complessivamente dovuto; in quella sentenza, infatti, la Sezione ha stabilito perentoriamente ed indiscutibilmente che sussiste il diritto della parte interessata al riconoscimento delle differenze retributive e previdenziali, derivanti dal rapporto di lavoro instaurato in via di fatto, con condanna della p.a. al pagamento delle relative somme, dalla data di maturazione del credito e fino all’effettivo soddisfo, con interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge e nei limiti del divieto di cumulo, secondo i criteri stabiliti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella decisione n. 3/1998.

Come già detto dalla Sezione, tale giudicato formatosi sulla sentenza di cui sopra in fatto non lasciava alcun margine apprezzabile per l’esercizio delle prerogative discrezionali della p.a. procedente, donde la sua natura sostanzialmente del tutto autoesecutiva, che avrebbe dovuto indurre il comune a trarne le debite conclusioni, per cui le nuove determinazioni amministrative, non escludendo, come detto, in alcun modo voci particolari dalla retribuzione complessivamente spettante ai ricorrenti, retribuzione (e relative voci previdenziali) che deve essere parametrata alla corrispondente retribuzione dei dipendenti di ruolo, svolgenti le medesime mansioni, presso l’Amministrazione convenuta.

Sotto un secondo profilo, infatti, il punto di riferimento per la liquidazione delle retribuzioni e delle somme a titolo previdenziale è rappresentato dagli emolumenti corrisposti ai dipendenti di ruolo del Comune addetti alle stesse mansioni nel periodo corrispondente di lavoro.

Come ha già statuito, in effetti, l’Adunanza Plenaria del Consiglio Stato (decisione 8 aprile 1995, n. 7), nel caso di instaurazione di un rapporto di lavoro con la p.a., avente le caratteristiche del pubblico impiego ma tuttavia nullo per violazione di norme imperative, il trattamento economico dei soggetti privati titolari del rapporto va determinato alla luce dell’art. 2126 c.c., avendo presente il rapporto di pubblico impiego; pertanto, le prestazioni lavorative rese non possono essere retribuite mediante l’attribuzione di una paga oraria, ma mediante uno stipendio tabellare mensile lordo iniziale rapportato alle funzioni svolte, comprensivo della indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità, nonché degli altri elementi accessori e continuativi della retribuzione (nella specie, contributo posto, premio di produzione, ecc.), ed infine mediante, erogazione della indennità di fine rapporto.

Pertanto, l’Amministrazione convenuta , entro sessanta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente pronuncia, dovrà ricalcolare quanto dovuto al ricorrente sulla base di tale principio, calcolando, cioè, lo stipendio tabellare mensile lordo iniziale rapportato alle funzioni svolte, comprensivo della indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità, nonché degli altri elementi accessori e continuativi della retribuzione (nella specie, contributo posto, premio di produzione, ecc.), ed infine mediante, erogazione della indennità di fine rapporto.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),

definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione.

Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite che liquida in euro 1500,00 oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 maggio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Trovato, Presidente
Roberto Chieppa, Consigliere
Francesca Quadri, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere, Estensore
Antonio Amicuzzi, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 08/06/2011

domenica 19 giugno 2011

Indennità di disoccupazione - Il falso mito della truffa

Costituisce radicato convincimento di molti operatori che il lavoratore che abbia espletato attività lavorativa durante il periodo di disoccupazione e di percezione da parte dell'INPS della relativa indennità, commetta il reato di truffa ai danni dell'INPS.
Spesso tale problematica si pone durante (o anche prima) dei giudizi finalizzati all'accertamento di rapporti di lavoro a nero svolti durante il "periodo di disoccupazione". Si grida allo scandalo e si invita normalmente il ricorrente ... a pensarci bene.
La massima che segue chiarisce che non è sempre così:
L'omessa comunicazione all'INPS di aver preso servizio presso un istituto scolastico, da parte di un uomo che percepisce l'indennità di disoccupazione, non integra il reato di truffa.
(Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 21000/11; depositata il 26 maggio).
Del resto capita costantemente nella pratica quotidiana di trovarsi difronte a casi nei quali il datore di lavoro ha, volente e nolente il lavoratore, interrotto il rapporto. L'accordo, senza dubbio fraudolento, consiste nella continuazione dell'attività, e nella percezione dell'indennità di disoccupazione che talvolta va ad integrare la retribuzione comunque, o in parte, percepita.
A prescindere dai profili penalistici, nel corso dei giudizi riguardanti fattispecie del genere, accade che il datore di lavoro nega il rapporto per interrompere anzianità di servizio e, talvolta, per vedersi accogliere un'eccezione di prescrizione. Taluni giudici, pur difronte ad una verità processuale che attesta l'avvenuto svolgimento del rapporto nei periodi di disoccupazione, dopo breve esitare, propendono per una sorta di non meglio precisata impossibilità della prestazione, rammentando che altrimenti dovrebbero, come si usa dire, inviare gli atti alla Procura.
La sentenza della Corte chiarisce che il principio, quantomeno, non è automatico.

Trasformazione da Part-time a tempo pieno con l'utilizzo continuo del lavoro supplementare

Con sentenza n. 11905 del 30 maggio 2011, la Cassazione ha affermato che l'utilizzo continuo di lavoro supplementare, in un rapporto a tempo parziale, può ravvisare il presupposto di una trasformazione a tempo pieno. La libertà del lavoratore di rifiutare la prestazione oltre l’orario del part time è ininfluente.
La Suprema Corte ribadisce che: "L’effettuazione in concreto delle prestazioni richieste, con la continuità risultante dalle buste paga, ha evidenziato l’accettazione della nuova regolamentazione”, e ciò “con ogni conseguente effetto obbligatorio” dal momento che ne deriva una modifica “non accessoria” dei contenuti del “sinallagma negoziale".
In altri termini, quindi, la Cassazione rivede un precedente orientamento secondo il quale occorre un consenso esplicito del lavoratore per la trasformazione.
Il punto è di rilevante importanza.
Il ricorso ai contratti part-time è molto frequente nella pratica quotidiana, caratterizzata dalla gran mole di imprese di piccole o piccolissime dimensioni che, per ridurre i carichi contributivi, ricorrono a questa forma contrattuale che, in tal modo, si manifesta sempre di più come strumento elusivo degli obblighi contributivi.
Spessissimo, invece, l'orario di lavoro non solo è di 40 ore, ma anche superiore.
La strategia di difesa dipende molto dalla parte che si rappresenta.
Costituendoci per i dipendenti è "conveniente" sostenere la validità del contratto, al fine di ricondurre a lavori supplementare l'orario eccedente, "premiato" con una maggiorazione sempre superiore a quella prevista per il lavoro straordinario.
Viceversa, difendendo la parte datoriale, le cose si fanno più complicate: non si può certo ritenere parzialmente nullo il proprio contratto, anche perchè ne deriverebbero conseguenze sul piano contributivo.
Fatto sta che la Corte in precedenza affermava che, ovviamente a prescindere dalle suesposte "convenienze", la trasformazione era ed è disciplinata tassativamente per legge con una ben precisa procedura, alla quale non si può sostituire un generico e presunto consenso delle parti.
Con la sentenza sopra richiamata, che ha importanti ripercussioni pratiche, si potrebbe sostenere (se si vuole perseguire tale finalità) che la trasformazione vi è stata di fatto.
Personalmente ritengo errata tale posizione, visto che l’art. 5 del D.Lgs. n. 61/2000 (riforma del Part-time), prevede, al comma 1, quanto segue: “Il rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o il proprio rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Su accordo delle parti risultante da atto scritto, convalidato dalla direzione provinciale del lavoro competente per territorio, è ammessa la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale. Al rapporto di lavoro a tempo parziale risultante dalla trasformazione si applica la disciplina di cui al presente decreto legislativo”.
La norma è chiara.
Le parti non devono semplicemente accordarsi nel senso di uno svolgimento part-time del rapporto di lavoro, ma devono accordarsi sulla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale. Oggetto dell’accordo in forma scritta è pertanto la trasformazione del tempo pieno in tempo parziale. La ratio legislativa riposa nell’evidente e logica necessità di consentire al prestatore di lavoro che nel rapporto con il suo datore di lavoro sta intervenendo un mutamento importante. La norma sottolinea infatti che la trasformazione non potrà mai avvenire senza il consenso del lavoratore, e che, in caso di rifiuto di quest’ultimo anche non motivato, il datore di lavoro non potrà in alcun modo pretendere la trasformazione, né, ovviamente, licenziare il lavoratore che si sia rifiutato.
La cassazione, invece, presuppone una possibilità di "trasformazione di fatto" che cozza non solo e non tanto col proprio precedente orientamento ma, soprattutto, con la disposizione di legge.